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Letture, commenti e novità su libri, articoli o novità editoriali

I nuovi apocrifi sherlockiani di Luigi Pachì

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Nuove mappe dell’apocrifo (Luigi Pachì, Delos Digital 2021) è, come informa il sottotitolo, “Un percorso mirato tra gli autori internazionali e nazionali di nuove avventure sherlockiane”. Non solo: non si pone obiettivi accademici o enciclopedici, quanto piuttosto come “un lavoro che va letto come se stessimo parlando intorno a un tavolo tra amici e appassionati” (p. 6). Da anni Pachì raccoglie intorno allo Sherlock Magazine un cenacolo di autori, traduttori e studiosi: penso a Enrico Solito, a Luca Sartori, ma anche alle giovani vincitrici del premio Tradunoir: studentesse dell’Università di Urbino che ogni anno ottengono un contratto di traduzione.

L’arte dell’apocrifo sherlockiano è indagata in questo volume con cura, distinta dalla scrittura di pastiches, ed esaminata nelle sue molteplici declinazioni. Chi vuole immergersi nella lettura di questo volume di oltre 500 pagine deve sapere che affronterà un viaggio impegnativo ma pieno di soddisfazioni e sorprese. Il volume va ad aggiungersi ai pochi altri studi “scientifici” sul tema: vale la pena ricordare almeno l’ottimo Oltre il Sacro Canone del già citato Sartori (Aras 2016), la cui recensione trovate qui:

https://www.sherlockmagazine.it/8923/oltre-il-sacro-canone-di-luca-sartori-aras-edizioni 

(a.c.)

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Una storia dei Profili criminali di Luca Marrone

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Profili criminali. Ricerca criminologica e investigazione (Luca Marrone, Bulzoni Editore 2022) è una lettura interessante sia per gli addetti ai lavori, sia per gli appassionati d noir e poliziesco. Luca Marrone, del resto, è una garanzia: consulente investigativo, docente, autore di numerosi volumi, ha sempre coniugato una professionalità ineccepibile con una grande conoscenza della letteratura e del cinema come fenomeni culturali fondamentali per entrare nello spirito dell’investigazione e della mente criminale. 

Vedere citati autori come Edgar Allan Poe o Wilkie Collins, personaggi come Sherlock Holmes, e film come Un giorno di ordinaria follia accanto ai casi che hanno fatto la storia della criminologia (da Jack the Ripper a Zodiac) fa capire l’ampiezza degli interessi di Marrone e conferma la qualità “convergente” della cultura, per dirla con le parole di Henry Jenkins. 

Si tratta, insomma, di un volume veramente colto e completo sul criminal profiling – la sua storia, i suoi principali esponenti, le tecniche investigative… il tutto scritto con semplicità e chiarezza nel rispetto del rigore accademico, e corredato da una bibliografia approfondita ed esaustiva: un volume che non può mancare sullo scaffale dello scienziato forense e nella biblioteca dei lettori / spettatori più esigenti di crime fiction.

(a.c.)

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In libreria Murder by Jury di Ruth Burr Sanborn tradotto da Paola de Camillis Thomas

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La parola ai giurati (12 Angry Men) è un film del 1957 diretto da Sidney Lumet. La vicenda si svolge quasi completamente nella sala dove sono si riunisce la giuria che deve decidere riguardo alla colpevolezza di un giovane accusato di essere l’assassino del padre. Poiché in casi come questi il verdetto deve essere unanime, e all’inizio 11 giurati si dichiarano a favore della colpevolezza, segue una discussione che invece di portare all’unanimità porta progressivamente a dubitare cosicché alla fine il risultato è capovolto e al giovane (innocente) viene risparmiata la sedia elettrica. 

Conoscevo bene questo film quando ho avuto tra le mani un romanzo di argomento analogo e dal titolo intrigante, ma che non conoscevo affatto: Un colpevole in giuria, che ho scoperto trattarsi della traduzione italiana di Murder by Jury di Ruth Burr Sanborn (1932) a opera di Paola de Camillis Thomas. Tanto di cappello alla traduttrice e anche a quella infaticabile talent scout che è Tiziana Elsa Prina, la fondatrice delle Edizioni Le Assassine.

Il romanzo (scritto da una donna, è bene ripeterlo) precede di oltre vent’anni il testo originale da cui è tratto il film di Lumet, un testo scritto per la TV da Reginald Rose nel 1954. È ambientato in America, precisamente a Sheffield, in Alabama, nel periodo del Proibizionismo e della Grande Depressione. Non è l’unico argomento a suo favore: la trama è avvincente, con colpi di scena che si succedono fino all’ultimo, e il congegno narrativo è ottimo ed efficace. In questo caso è una donna a essere accusata ingiustamente, così come è una donna (una giurata) a insistere sulla necessità di non commettere giudizi affrettati, ed è ancora una donna a essere assassinata durante la riunione della giuria.

Un romanzo che valeva certamente la pena di recuperare dall’oblio, tradurre e far conoscere al pubblico di lettori e lettrici, e che può rivelarsi estremamente interessante anche per gli esperti di scienze forensi e per gli studiosi di cultura americana. Forse una breve introduzione o postfazione sarebbe stata la ciliegina sulla torta, anche per sottolinearne sia la carica innovativa in rapporto al film di cui sopra, sia la legacy rispetto a un altro importante racconto, “A Jury of Her Peers” (“Una giuria di sole donne”) di Susan Glaspell (1918), che già testimoniava l’importanza dello sguardo femminile nelle indagini poliziesche, nei procedimenti legali e nelle aule di tribunale.

(a.c.)

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Breve storia del romanzo poliziesco di Leonardo Sciascia

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Leonardo Sciascia
Con una introduzione di Eleonora Carta
Letteratura
Graphe Perugia 2022
Pag. 43 euro 6,50

Pianeta umano, da millenni. Occidente, da quasi due secoli. “La principale ragione per cui un pubblico vastissimo, in ogni parte del mondo, legge (sarebbe dir meglio consuma) romanzi polizieschi (“gialli” in Italia, “neri” in Francia: dal colore della copertina che gli editori Mondadori e Gallimard hanno scelto nel momento in cui il poliziesco diventava un genere a sé) …” potrebbe essere trovata in una frase di Alain rintracciabile nel Sistema delle arti (Alain era lo pseudonimo del filosofo e giornalista francese Émile-Auguste Chartier, 1858-1951), oppure in riflessioni di Marx e Freud, sintetizzabili in breve. “Nei romanzi del genere sono impiegati senza precauzione – senza la precauzione, cioè, che è dell’arte – dei mezzi che con notevole approssimazione si possono definire di terrore: e l’effetto è fuga di pensieri, meditazione senza distacco. La lettura di un poliziesco è, nel senso più proprio della parola, passatempo: il tempo non più portatore di pensiero o di pensieri, non più scandito da condizioni e condizionamenti, è come sommerso in una fluida e opaca corrente emotiva …”. Questo è l’incipit del ragionamento di Leonarda Sciascia sul settimanale Epocadel 20 settembre 1975, proseguito nel numero successivo e ripubblicato come saggio di una raccolta di scritti del 1998 (se ne possono rintracciare un paio di versioni quasi identiche). Con tale premessa Sciascia individua già all’interno della Bibbia il primo racconto poliziesco, ingredienti identici a quelli a lui contemporanei, per un genere le cui origini più vicine e precise possono essere anche tecnicamente distinte in Edgar Poe. La traccia di ragionamento è stata ribadita da decine di autori, recensori e studiosi in centinaia di pezzi, più o meno giornalistici, solo aggiornando i termini.
Il siciliano europeo Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989) fu presto appassionato anche di letteratura di lingua angloamericana, avido lettore degli scrittori popolari e, tra essi, sia dei grandi del cosiddetto giallo classico di fine Ottocento e primi Novecento che degli autori della nuova scuola hard-boiled, a partire dal capostipite Dashiell Hammett, da cui poi il genere sarebbe divenuto anche noir per la carica di denuncia e di prefigurazione (propria anche di molti romanzi di Sciascia). L’autore è una lettura imprescindibile soprattutto per chi ama scrivere: si gode, si pensa e s’introietta pure uno stile chiaro e limpido. Nel 2021 sono stati numerosi i volumi, le mostre e gli eventi che gli sono stati dedicati in tutt’Italia per il centenario della nascita. Fra di essi possiamo considerare la riedizione di questo breve significativo testo giornalistico di storia della letteratura. Lo schema di ragionamento era un buon cliché già cinquant’anni fa, pur argomentato in modo colto e sincero: il poliziesco come genere minore di puro intrattenimento. Valeva e vale spesso come premessa alla disanima personale di cosa sia alta letteratura di pensiero, nel caso (non solo) di Sciascia come esperienza di scardinamento del genere e testimonianza di un “altro” modo di scrivere polizieschi. In realtà, la dialettica risale indietro (più o meno ai tempi della Bibbia) e merita di essere rivalutata a partire da Sciascia, come opportunamente fa Eleonora Carta nell’introduzione, nella quale l’autrice sottolinea come comunque Sciascia “celebra” il genere e, in qualche modo, “riabilita” la propria conseguente passione, forse anche per codificare regole che i propri gialli cercarono di sovvertire, scomporre, rovesciare. Nella sua “storia” Sciascia tratta Poe, Conan Doyle, Van Dine, Freeman, Agatha Christie, Hammett, Chandler, cita brevemente altri esemplari colleghi e ricorda, a contrasto, solo Greene, Bernanos, Gadda (e Borges) fra “i grandi scrittori” a lui recenti, “che, per divertimento o congenialità, hanno scritto dei gialli”. In fondo utile la cronologia della vita di Sciascia e l’indice dei nomi di persona e dei titoli citati.
 
Valerio Calzolaio

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Il convento dei segreti di Giada Trebeschi

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Volete farvi un ripasso della storia italiana (anzi: siciliana) del Seicento?? Volete leggere un thriller che è anche un noir e che è anche un’avvincente storia d’amore, di sesso & potere, di cappa & spada?

Il convento dei segreti di Giada Trebeschi (Newton Compton 2022) è una conferma della qualità della scrittura e dell’ampiezza di contenuti di questa scrittrice/editrice/studiosa/influencer poliedrica e attivissima. Giada ci aveva già conquistati con i suoi thriller storici che vanno da La dama rossa (2012) a La bestia a due schiene (2020) e quindi non è con stupore che salutiamo questa sua nuova prova, che tuttavia ci sorprende per l’attualità delle tematiche e per la forza di carattere della protagonista.

Siamo a Catania nel 1669 e una giovane donna viene costretta a farsi monaca di clausura. Ma questo è solo l’inizio. Fidatevi, nonostante la location (un convento, appunto, dunque un’ambientazione al 90% femminile) la trama è così noir che perfino l’attrazione fisica per un uomo diventa noir, anzi fa quasi scomparire di vergogna le descrizioni delle dark ladies nell’hard boiled più noir: 

Lo guardò ma non vide il bel viso sfregiato da una cicatrice sulla guancia sinistra, non vide la barba corta e nerissima che esaltava l’ovale del volto, non notò il luccichio del cerchio dorato che aveva all’orecchio sinistro e non si accorse nemmeno del codino di capelli corvini, no, non riuscì a vedere altro che i tizzoni che Giorgio aveva al posto degli occhi. 

Qua è là, poi, ci sono poi piccole perle, come l’accenno alle nuove spezie che giungono dal Nuovo Mondo (la vaniglia, i semi di cacao…) e i simpatici rimandi intertestuali (“La sventurata sorrise”), per non parlare dei colpi di scena, in cui Giada è veramente maestra, e del valore sociologico, psicologico, identitario e anche simbolico di questo romanzo che non a caso mi ha ricordato le atmosfere intense di Magnificat di Pupi Avati. E poi, ogni tanto, un’incursione dalla nostra contemporaneità, che crea un cortocircuito fra passato e presente – come l’inserimento di un qr code per ascoltare una canzone e vedere la “storia dipinta” di una serenata (chapeau a Giorgio Rizzo, collaboratore di Giada (Le parole desuete e dintorni). E incomparabile la Nota dell’Autrice, che ci riporta al rigore della ricerca.

Lo stile è quello di sempre, o forse no. In realtà questo è un libro che va letto col ritmo del respiro – in fretta, in alcune sue parti; più adagio, come una litania, in altre. L’introspezione psicologica è radicale, quasi bruciante. Impossibile non immedesimarsi. Già il primo capitolo ci afferra, ci scuote e ci fa prendere posizione. 

Impossibile non divorarlo, questo romanzo. Impossibile restare neutrali. E mentre scorriamo la vicenda di Agata Maria alias suor Immacolata, pagina dopo pagina, riga dopo riga, parola dopo parola, ci scorre sotto gli occhi la storia e la storia delle donne, piccole storie di stupri di violenze di pianti di preghiere di torte di fughe e di insperate sorellanze. 

(a.c.)

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La verità di Iago di Ettore Catalano

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Ettore Catalano, La verità di Iago (Progedit 2021)

Una promozione per il commissario Donato Tanzarella lo porta a Brindisi a indagare su un delitto in cui è coinvolta una giovane giornalista di moda, il cui corpo viene ritrovato in una villa in decadenza nota come la Casa dei fantasmi. Ma chi è Iago? Che c’entra l’Otello con l’inchiesta? Il motore di tutto sarà la gelosia o l’invidia? O altro?

Un romanzo accuratissimo, una scrittura raffinata che non delude mai, e che mostrandoci che “è proprio la letteratura ad aiutarci a penetrare il senso della realtà” alterna l’orrore dell’omicidio alla bellezza mozzafiato di una città fuori dai consueti percorsi artistici ma certamente da (ri)scoprire, all’immortalità del testo shakesperiano, e anche all’autenticità dei personaggi delineati con un vero stile da maestro.

(a.c.)

 

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Melany Star, Settembre veneziano (PAV Edizioni 2019)

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Melany Star, Settembre veneziano (PAV Edizioni 2019)

Complice la pandemia e la sempre crescente montagna di lavoro, segnalo con colpevole ritardo questo piccolo gioiello noir di ambientazione… lagunare. L’autrice che si cela dietro questo romantico pseudonimo riesce a portare il lettore nelle atmosfere suggestive di Venezia e al contempo a creare una trama fatta di mistero, suspense e colpi di scena. Ammetto che il libro mi ha irretita fin dalla prima pagina – “Un bellissimo, affascinante bastardo con la barba di qualche giorno, trascurata ad arte, che gli incorniciava la bocca da mascalzone.” Un punto di vista che ricalca al femminile il tipo sguardo (maschile, manipolatore, politicamente scorretto ma indimenticabile) del private eye chandleriano, tough guy indiscusso che indugia volentieri su corpi e labbra di donna nelle pause delle sue indagini.

Fra attentati terroristici, serate mondane, simboli massonici e competizioni sportive si snoda una vicenda che ci porta avanti e indietro nel tempo, incollandoci alla pagina fino alla fine del romanzo; e i dialoghi si alternano alle descrizioni, sviluppando un equilibrio formale di tutto rispetto che alla fine ci fa perdonare qualche caduta libera del tipo: “Sei una gattina o una tigrotta?” Del resto il substrato insistentemente sentimentale/erotico, che indulge in un registro ben poco noir (parole come sexy, flirt e seducente sarebbero da segnare a penna rossa), finisce per stemperare la crudezza del genere poliziesco senza perdere comunque di vista l’obiettivo finale. In conclusione: gustoso, ben scritto, e divertente come un gioco di società: meglio se terrete sotto mano una mappa di Venezia.

(a.c.)

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GIRAMONDO di Gianluigi Schiavon

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Proprio quando la pandemia sembra aver colpito pesantemente i nostri progetti turistici e le nostre possibilità di viaggiare in tutta tranquillità, ecco che arriva questo piccolo gioiello di Gianluigi Schiavon, Giramondo (Giraldi 2021): una vera boccata d’aria, una girandola di curiosità, una giostra di entusiasmo e d’intelligenza. Schiavon ci ha già sorpresi con due gialli atipici, La fuga e Rapkoka – atipici in quanto si discostano (finalmente) dal diktat italico che negli ultimi anni sembra privilegiare il regionalismo nazionale – e con il suggestivo A Bologna c’era la neve, diario fotografico di un tempo sospeso tra memoria e magia. 

Ma ci sorprende ancora con questa raccolta di racconti, alcuni dei quali brevissimi, tutti diversissimi tra loro per setting, stile, tema, personaggi e intreccio, e che costituiscono un mappamondo di storie intrecciate per caso o per gioco. Che si parli di un rapinatore di croissant o dell’abominevole troll di Oslo, della confessione di una mummia nel British Museum o di una ricognizione marziana tesa a verificare la fattibilità di invadere il nostro pianeta, Schiavon – giornalista, umorista e finissimo conoscitore dell’animo umano – sa condurre il lettore dentro la vicenda nel giro di un paio di righe (al massimo), e di sedurlo proprio attraverso l’esperienza della differenza culturale, del gioco di parole, della battuta di spirito mai fine a se stessa. 

Non ci sono storie migliori o peggiori. Il climax passa di storia in storia senza mai farci annoiare, e trasportandoci senza sosta nei quattro angoli della Terra. Ma visto che parliamo di noir, vi segnalo il contributo centrale, “La verità di Ginger”: un noir travolgente, divertente, secondo una tradizione che va dal Gatto nero di Edgar Allan Poe al Viale del tramonto di Billy Wilder, ma che Schiavon rende ancor più radicale. Non dirò altro, per non fare spoiler. Ecco l’incipit:

Salve, mi chiamo Ginger e abito al British Museum. In realtà Ginger è solo il mio soprannome. D’altra parte, come mi chiamo davvero proprio non lo ricordo. Capirete, sono passati 5.500 anni. 
Sono arrivato a Londra nel 1900. Dopo Cristo, d.C., come dite voi, mortali d’oggi. Comunque un secolo fa, un’inezia, rispetto alla mia età. Ora non mi guardate così un po’ di rispetto: non è colpa mia se sono in questo stato. Ebbene sì, ladies & gentlemen, ecco a voi Ginger, la mummia più famosa di Londra. In scena dal 1901, per servirvi: ho avuto successo subito, non faccio per vantarmi. Alla prima esibizione ero già una star. 

Che Ginger sia con noi. 

(a.c.)

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Diabolik a Urbino – Diabolik fra ‘ammore’ e malavita

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Grazie a Marco Lazzari, gestore del Cinema Nuova Luce e membro del gruppo Cinenoir, abbiamo avuto la possibilità di vedere Diabolik a Urbino la sera della sua uscita, il 16 dicembre, introdotto da una breve presentazione di Alessandra Calanchi e Tiziano Mancini curatori nel 2019 di Noir come l’inchiostro. True Crime e Fake News sulla pagina e sullo schermo, un volume della collana Urbinoir studi (Aras edizioni) che aveva in copertina proprio Diabolik davanti ai Torricini di Palazzo Ducale – disegnato naturalmente dal Maestro Giuseppe Palumbo (docente a Isia e illustratore di chiara fama), a cui va la nostra imperitura riconoscenza.

Come ciliegina sulla torta, è per noi un grande onore pubblicare un contributo del professor Roberto Danese (altro componente del gruppo Cinenoir) scaturito dalla visione e conseguente riflessione sul film.  

Diabolik fra ‘ammore’ e malavita

di Roberto Danese

La saga di Diabolik, inventata negli anni ’60 dalle sorelle Giussani, comincia da tre. Tutti gli elementi che caratterizzeranno negli anni a venire la storia fantastica del criminale in nero, in primis il personaggio determinante e iconico di Eva Kant, compaiono infatti nell’albo n. 3 (L’arresto di Diabolik, uscito il 1 marzo 1963). Si tratta di una sorta di rigenerazione della figura del geniale malfattore, che, da presenza oscura e impalpabile (era un solitario, una specie di Fantomas di cui nessuno conosceva il volto né capiva come facesse a essere dovunque e a sapere tutto quello che gli serviva per portare a compimento i propri colpi), diventa una figura meglio leggibile, soprattutto per il suo ostinato ‘cacciatore’, l’ispettore Ginko. Quali sono i tratti nuovi scaturiti dal mitico albo n. 3? Uno lo abbiamo detto: l’arrivo di Eva Kant, che da qui in poi farà sempre coppia con Diabolik, ponendosi automaticamente al di fuori della legge e diventando anch’ella bersaglio della polizia. Poi lo svelamento totale del volto del bandito, con la conseguente cancellazione della vita di facciata che gli permetteva di comparire tranquillamente in pubblico. Quindi la scoperta da parte della polizia di una delle sue ‘armi’ segrete più importanti: le maschere che gli consentono di diventare chiunque, anche l’ispettore Ginko stesso. D’ora in poi Diabolik ed Eva dovranno vivere in clandestinità e potranno interagire con gli altri solo dietro lo schermo delle stupefacenti maschere uscite dal laboratorio del fuorilegge.  Per leggere o scaricare l’articolo completo cliccare qui

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