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Letture, commenti e novità su libri, articoli o novità editoriali

nero lucano di piera carlomagno

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 La patologa e antropologa forense Viola Guarino, specialista nell’esame della scena del crimine e dotata di un intuito “da strega”, già protagonista del noir “Una favolosa estate di morte”, torna a cimentarsi con una vicenda ambientata in Lucania, dove uno spietato serial killer lascia le sue vittime con il cranio spaccato e una carta geografica in mano. È di nuovo a fianco del sostituto procuratore di Matera, Loris Ferrara, ma questa volta in una affascinante, e allo stesso tempo inquietante, Matera invernale, all’indomani del suo exploit come capitale europea della cultura.

Un romanzo che nelle prime pagine cita “La Caduta” di Camus, e mostra professionisti di successo, che si sono arricchiti sfruttando nuove possibilità, accanto a vecchi notabili ancora in grado di condizionare amicizie e decisioni politiche. Le vicende narrate suggeriscono anche tante tonalità e tanti significati del nero: il nero della “Madonna nera” di Viggiano, il nero degli abiti delle anziane donne lucane, il nero del petrolio della Val D’Agri e alcune sue nere conseguenze, fatte di appalti, corruzione, degrado ambientale. E, naturalmente, il nero del noir, quello del degradato contesto sociale che si manifesta mano a mano che le indagini conducono gli inquirenti a scavare nei meandri della società, mostrando quello che sta dietro le apparenze. Quel “contesto” che richiama alla mente Sciascia, coi suoi noir che ben presto diventano analisi sociali e politiche.

Ma anche i toni del rosso diventano importanti: il rosso dei pavimenti delle vecchie ville lucane, di certi dipinti, e naturalmente del sangue. Tre delitti, con le stesse modalità e scanditi da altrettante pagine letteralmente “strappate” dalla Divina Commedia. Una stessa mano, ma in apparenza senza un movente. Indagini complesse, che procedono su più fronti, nello spazio e nel tempo, scavando nei luoghi dei delitti ma anche nei ricordi di tempi passati, muovendosi razionalmente ma anche con un po’ di intuito e di fortuna. 

La scrittrice salernitana Piera Carlomagno, giornalista professionista e presidente dell’associazione noir “Porto delle nebbie”, che organizza il SalerNoir Festival, ci conduce di nuovo fra i profondi calanchi lucani, profondi come la storia di questa terra, che si divide fra tradizione e innovazione, con la protagonista Viola che sfreccia sulle due ruote della sua potente Ducati da un luogo all’altro, da un uomo all’altro, e la saggia nonna, di professione lamentatrice funebre, che le cucina piatti tradizionali e le parla con un incomprensibile (almeno per noi) dialetto lucano.

GIB, 4 giugno 2021

Piera Carlomagno “Nero lucano”, Solferino Editore, 18€.

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I PASSI DI MIA MADRE di Elena Mearini

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Proposto da Lia Levi al Premio Strega 2021, questo nuovo romanzo di Elena Mearini non è un noir, anche se del noir conserva la sintassi quasi onirica dell’ossessione e dell’indagine e quella frammentazione che gioca fra significanti e significati per sottrarre continuamente al lettore l’unità di una possibile soluzione. 

Ci ricorda un po’ I miei luoghi oscuri di James Ellroy (1996), questo romanzo, anche se qui la madre oggetto della detection (quest?) è ancora viva o potrebbe esserlo. E anche se quello che più ci affascina resta lo stile della sua scrittura, uno stile unico, capace di commutare continuamente la poesia in prosa e la prosa in monologo per tornare al tono più lirico – un cortocircuito che si ripropone a ogni pagina, a ogni riga. 

Noi ospitammo Elena Mearini a Urbinoir a parlare di Undicesimo comandamento: uccidi chi non ti ama (2011) e ci piace vedere un filo che unisce i due romanzi, tra i tanti da lei scritti in questi dieci anni. Entrambi narrano un percorso di conoscenza e di liberazione che passa attraverso un’analisi spietata, quasi chirurgica, dell’anima. E narrano, entrambi, i luoghi oscuri dell’amore, l’amore che morde e che sbrana. A ricordarci che è proprio nell’abbandono, nella violenza subita, nel corpo svuotato, che si nasconde la chiave per riprendersi la vita. (a.c.)

I PASSI DI MIA MADRE, ELENA MEARINI, Morellini editore

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 Il mostro di Roma di Luca marrone

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 “Il mostro di Roma – Delitto, devianza e reazione sociale nell’Italia del Ventennio” Collana UrbiNoir – Studi / Aras Edizioni (pag. 204 – 20€)

Il mistero rimane irrisolto e il caso appassiona ancora. A oltre novant’anni dall’ultimo delitto, le vicende del “mostro di Roma” sono oggetto di studi e corsi accademici.  L’ultimo libro che si occupa della serie di omicidi e violenze sessuali che sconvolsero la capitale fra il 1924 e il 1927 è stato scritto da Luca Marrone, è intitolato  “Il mostro di Roma – Delitto, devianza e reazione sociale nell’Italia del Ventennio” ed è pubblicato nella Collana   UrbiNoir – Studi da Aras Edizioni (pag. 204 – 20€).   Il volume non è solo una ricostruzione delle terrificanti aggressioni avvenute ai danni di sette bambine fra i due e i sei anni di età, ma ci offre uno spaccato del contesto storico, del ruolo della stampa dell’epoca nell’esasperare i toni e generare un allarme sociale che potrà essere placato solo con l’individuazione di un colpevole.  Quando un sospettato finisce agli arresti, i giornali non hanno dubbi: il “mostro” è lui. E anche il regime dell’epoca  tira un sospiro di sollievo, presentando il risultato come un esempio di efficienza del sistema che garantisce la sicurezza dei cittadini.  I titoli cubitali occuperanno le pagine dei quotidiani nazionali più diffusi. Quando 11 mesi più tardi il poveruomo verrà rimesso in libertà, totalmente scagionato,  la notizia avrà spazi irrisori e il malcapitato ne uscirà con una vita devastata.   Quindi, di pagina in pagina, il libro ci fa entrare nelle atmosfere di quasi un secolo fa, ripercorrendo dinamiche,  contraddizioni, errori nelle indagini e pregiudizi che avranno punti in comune con tanti altri casi avvenuti nelle decadi successive.

 Luca Marrone è docente alla  Lumsa  di Roma e ha proposto il caso del “mostro” come materia di studio per gli iscritti al Master in Criminologia applicata e Psicologia forense.  Il materiale di quelle lezioni è stato revisionato ed è diventato il libro più recente quella catena di efferatissimi delitti  che negli anni Venti  del ‘900 sembrano scaturire più dalla penna di un scrittore di  crime stories  che non essere casi reali.  Marrone riporta le descrizioni dei giornali dell’epoca, le scarse testimonianze disponibili, analizza la realtà storica e il modo di agire degli investigatori.  Le indagini si muovono con grande incertezza.  Il possibile aggressore  è descritto in maniera molto vaga: vestito grigio, cappello nero.  La violenza che riversa sulle bambine sue vittime è disumana. Ecco perché le ricerche si concentrano su disadattati, emarginati, persone con forme di anormalità psicologiche, ma non portano a granché.  All’improvviso arriva la presunta svolta: una giovane domestica di una coppia benestante, lui ingegnere, lei elegante signora della borghesia romana,   riferisce di essere stata oggetto di strane attenzioni da parte di un uomo che le si era rivolto con la scusa di darle un biglietto.  Scatta la denuncia. Partono le nuove indagini.  La famosa agenzia Stefani, voce ufficiale del regime fascista, il 9 maggio del 1927 riporta: «Le incessanti, febbrili indagini per la scoperta degli assassinii di Leonardi Armanda e di altre bambine, condotte silenziosamente ma tenacemente sotto la personale direzione del Questore di Roma, sono state coronate da pieno successo (…). L’assassino, raggiunto da un cumulo di prove, che appaiono irrefrangibili, è stato identificato e arrestato. Egli è il mediatore Girolimoni Gino».   I giornali si buttano sulla notizia e consacrano il “mostro di Roma” con ricostruzioni e valutazioni che lasciano poco spazio ai dubbi, prima che qualunque giudice abbia il tempo di esprimersi.   E qui, il libro di Luca Marrone ci fa osservare il percorso che proprio in quel periodo conduce alla fine della stampa libera, all’informazione totalmente allineata con le esigenze del governo di Mussolini. 

Dopo undici mesi di carcere Girolimoni viene prosciolto dal giudice che smonta tutte le tesi accusatorie e le relative prove. Per l’innocente si tratta di  una magra rivincita: perderà amicizie e lavoro. Morirà poverissimo dopo essersi messo a fare il riparatore di biciclette e il ciabattino.  Si capirà dopo che era  stato effettivamente lui a cercare di avvicinare la giovane domestica della coppia, che aveva presentato poi denuncia.    Ma non per importunarla: Girolimoni era l’amante della moglie dell’ingegnere e tramite il biglietto che aveva tentato di dare alla domestica, voleva contattare l’elegante signora per fissare il prossimo appuntamento. 

Nel libro si parla anche di Giuseppe Dosi, appassionato lettore di Arthur Conan Doyle e fan di Sherlock Holmes.  Dosi è un giovane poliziotto che adotta metodi di investigazione innovativi per l’epoca.  Non crede che Girolimoni sia il “mostro di Roma”.  Concentra le sue indagini su un pastore anglicano e ne parla con il magistrato che poi proscioglierà Gino Girolimoni.  Giuseppe Dosi è un personaggio scomodo per il regime. Il pastore inglese, già denunciato per pedofilia, verrà dichiarato non in grado di intendere e di volere.  Riparerà negli USA e rimarrà fuori dal caso. L’ostinazione di Giuseppe Dosi genererà vari nemici, e  sarà addirittura lui a ritrovarsi per diciassette mesi in  una struttura di salute mentale. Verrà reintegrato nella Polizia solo dopo la caduta del fascismo. 

Luca Marrone ci fa scoprire come le tecniche di indagine odierne avrebbero affrontato il caso di “mostro di Roma”,  palesa le ingenuità commesse dagli investigatori dell’epoca,  ci fa capire quanto il contesto storico e sociale abbia avuto una pensate influenza  sull’esito delle indagini e la ricerca del colpevole.  Il potere dei media nel creare un certo “clima” attorno alle vicende di cronaca era  un potente strumento di condizionamento allora e rimane un fattore significativo anche oggi. La ricca bibliografia che chiude il libro edito da Aras  è una ricca fonte di spunti per chi si interessa di criminologia, psicologia e profiling.

Gabriele Cavalera

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Favole da riformatorio di Ugo Cornia

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Una raccolta di venti brevi favole, proposte dallo scrittore modenese Ugo Cornia, che prendono a prestito alcuni personaggi dalle fiabe classiche (da Cappuccetto Rosso a Pinocchio passando per il Gatto con gli stivali e Raperonzolo, che però qui è in compagnia di Cipollonzolo, Aglionzolo ecc.) e anche i classici animali che compaiono nelle fiabe per rappresentare, in modo caricaturale e talvolta grottesco, specifiche tipologie umane: dall’onnipresente lupo affamato (ma qui anche un po’ depresso e disoccupato) alla lontra, dalla gazza all’alligatore, dal millepiedi all’elefante – e non mancano specie meno comuni nel mondo delle favole, come il fennec, lo struzzo o il piviere. Ciascuno con i propri gusti e le proprie manie (anche di carattere sessuale, a differenza delle favole classiche). 

Quello che cambia, rispetto alle fiabe tradizionali, sono il contesto, molto più vicino agli ambienti e ai problemi del nostro tempo, e il linguaggio, emancipato e crudo, provocatorio e anticonformista, fin quasi al turpiloquio (un linguaggio, appunto, da riformatorio). Che in realtà è proprio quello che sentiamo ogni giorno e che un po’ tutti utilizziamo. Perché le favole classiche, che si continuano a ripetere sempre uguali, coi loro antiquati stereotipi, «sono piene di luoghi comuni che ti sviano da una comprensione corretta della realtà», come dice il fennec alla gazza. Talvolta le favole classiche si basano su certezze che non ci sono più, su stili di vita ormai obsoleti, e quindi potrebbero essere persino fuorvianti, ingannevoli, addirittura diseducative. Tanto che alcuni celebri personaggi delle fiabe preferiscono migrare in romanzi più recenti e reali, come i romanzi noir. È ciò che accade a Pinocchio, nella “Favola dei personaggi di favole famose che un bel giorno hanno voluto lasciare la propria favola per trasferirsi in un noir”. Questa favola, che è collocata come ultima, è in qualche modo emblematica, una vera chiave di lettura dell’intera raccolta. Pinocchio, infatti, è stanco di dover fare sempre le stesse cose da più di cento anni, di avere a che fare sempre con gli stessi personaggi (ormai datati nei modi e nel linguaggio) e con le stesse situazioni (ormai decisamente superate). Decide allora di fuggire dalla favola di Collodi per entrare in un romanzo noir (seguendo l’invito del Gatto e della Volpe, che hanno già fatto questo passo prima di lui). Perché «il noir sembrava più realistico, sembrava in grado di trasformare le cose losche che avvengono negli stati contemporanei molto meglio dei vari quotidiani». Inoltre nei noir si guadagnano soldi col traffico degli stupefacenti e le donne fanno sesso, addirittura si può guadagnare col mercato della prostituzione. Altro che la Fata Turchina, che non ha più niente di reale, o il Grillo Parlante, legato a principi obsoleti che nessuno è più disposto ad ascoltare. E allora, una favola dopo l’altra, personaggi tradizionali si trovano a vivere situazioni attuali, realistiche, magari crude ma vere. Lupi sfrattati o con la pensione  minima, che non basta per mangiare, alci disoccupate che si ammalano di depressione, Raperonzolo rapito dalla jihad agroalimentare, un gattino che voleva diventare il gatto con gli stivali ma non ha i soldi per gli stivali, una pecorella smarrita e un lupo emarginato, una vecchia cicogna che ha sviluppato un tale «sentimento dell’estrema tragicità dell’esistere» che per risparmiare lo straziante dolore della vita decide di sopprimere le creature prima della nascita. 

E non manca la morale: ogni favola ha qualcosa da insegnarci, e per giunta qualcosa di attuale, legato ai nostri giorni e espresso con il linguaggio corrente, non con quello dei tempi di Esopo o dei fratelli Grimm o di Collodi. Un esempio per tutti, sia per la morale che per il linguaggio: la favola dello struzzo che ogni volta che mette la testa sotto la sabbia viene inculato da qualcuno (sic), che lui ovviamente non riesce a vedere. Un linguaggio piuttosto crudo, ma di una chiarezza esemplare. E la morale è evidente, e realisticamente noir.

Gian Italo Bischi

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Ettore Catalano, Un’infezione latente (Progedit 2020)

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Ettore Catalano, Un’infezione latente (Progedit 2020) prosegue la saga del commissario Tanzarella, già incontrato in Rosso Adriatico (2018) e Un mare di follia (2019). La vicenda si apre a Capodanno e si conclude intorno all’Epifania: e questa è già una valida ragione per acquistare e regalare questo volume durante le feste… 

Il romanzo è elegante, ben scritto e seducente sotto molti punti di vista. La scrittura morbida e raffinata, la denuncia sociale del razzismo e dell’omertà, l’approfondimento psicologico del narratore-protagonista sono alcune delle altre ottime ragioni per procurarsi subito questo gioiello del noir italiano. 

L’ambientazione ostunese ne fa poi una testimonianza linguistica e culturale suggestiva ed efficace, senza mai cadere nel folklore locale. Un elemento che contraddistingue l’autore, per i palati più fini, riguarda i numerosi riferimenti letterari: troviamo Melville e Pavese, Manzoni e Borges, senza mai cadere nello sfoggio erudito, ma come silenziosi e saggi compagni di un’avventura che – al di là delle indagini, della scena del crimine e degli interrogatori –  sconfina spesso nella riflessione esistenziale e in un rimuginare senza sosta contagioso e fecondo.

Da non perdere. Aspettando il prossimo.                                                                                                      (a.c.)

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ULTIME NEWS SU JACK THE RIPPER

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GIADA TREBESCHI, LA BESTIA A DUE SCHIENE, GÜNZBURG, OAKMOND PUBLISHING, 2020

Fra i tanti pregi di questo romanzo, c’è anche quello di aver messo se non al centro quanto meno in evidenza sir Melville Macnaghten, che si occupò realmente del caso di Jack lo Squartatore ma che film, racconti e romanzi sul serial killer inglese che nel 1888 uccise e mutilò il cadavere di cinque (o forse sei, o forse sette) prostitute avevano sempre lasciato da parte. Complice Johnny Depp, che lo ha interpretato in From Hell – La vera storia di Jack lo Squartatore, il detective che spesso si trova legato all’assassino vittoriano è l’ispettore Frederick George Abberline, che era di certo molto dissimile fisicamente dall’attore americano. Macnaghton, in realtà, assunse le funzioni di vicecommissario capo di Scotland Yard dopo gli omicidi di Whitechapel ma in un memorandum indica tre possibili colpevoli: Druitt, un giovane studente di medicina che si suicidò pochi giorni dopo l’ultimo omicidio, e due immigrati ebrei, Ostrog e Kosminski, che gli ultimi studi relativi al DNA trovato su uno scialle appartenuto a una delle vittime confermerebbero come l’assassino. In questo romanzo Macnaghten chiede al suo amico Duncan Primrose, nobile scozzese ossessionato da un amore contrastato, di indagare su un attore sospettato di essere Jack lo Squartatore. È appunto Duncan il vero protagonista della vicenda, un detective per noia e passione che a poco a poco si lascia coinvolgere dall’inchiesta.

Il romanzo non rispetta sempre i fatti storici, ma perché dovrebbe farlo? È importante e ammirevole che siano perfettamente salvaguardati l’ambientazione dell’epoca e la mentalità del periodo, e rappresentata con precisione la contraddittoria e affascinante società vittoriana che si muove sullo sfondo. La trama, per esempio, prende le mosse da uno dei più interessanti episodi avvenuti durante gli omicidi, riportata fra gli altri da Donald Rumbelow: a Londra, nell’agosto 1888, andava in scena la versione teatrale dello Strano caso del dr Jekyll e di mr Hyde, nel quale il giovane attore Richard Mansfield stava riscuotendo un enorme successo per la sua sensazionale interpretazione del protagonista, in particolare per la sua stupefacente trasformazione. Quando iniziarono i delitti, il 31 agosto dello stesso anno, a Scotland Yard iniziarono a giungere molte lettere che indicavano possibili sospetti. Fra i tanti vicini di casa e nemici personali accusati di essere lo Squartatore, una lettera indicava come assassino proprio Mansfield, dato che la sua interpretazione era talmente verosimile da dover necessariamente essere ispirata a una sua ossessione personale. In La bestia a due schiene, l’attore accusato da una lettera anonima è impegnato invece in una rappresentazione di Otello, e la frase che dà il titolo al romanzo è tratta dalla tragedia shakespeariana dove Iago la usa volgarmente per indicare l’atto sessuale. Il dramma di Shakespeare è particolarmente adatto per indagare sulla vicenda: come sempre, in un caso di cronaca che colpisce l’opinione pubblica, quel che è interessante non sempre è l’identità dell’assassino, ma il modo in cui il delitto o i delitti mettono in luce angosce e incertezze private e collettive, esattamente come accade nel romanzo. Otello è un’opera in cui i personaggi non sono ciò che sembrano o che si scoprono diversi da come pensano di essere. Nessuno è del tutto innocente e tutti i personaggi sembrano in qualche modo costretti a fare i conti con quel lato oscuro della sessualità rappresentato dall’immagine della bestia a due schiene che dà il titolo all’opera. Non è innocente nemmeno il protagonista, nobile annoiato e ossessionato, un po’ eroe wildeano e un po’ Sherlock Holmes con qualche tocco dei personaggi stevensoniani, che potrebbe essere un personaggio seriale ideale, dato che per quel che lo riguarda molte cose restano in sospeso alla fine del romanzo. E anche perché i delitti, reali e narrativi, nel periodo tardo-vittoriano sono così numerosi che il nostro Lord Duncan Primrose ha solo l’imbarazzo della scelta fra quelli che necessitano della sua competenza come investigatore.

Gino Scatasta, Prof. di Letteratura inglese, Università di Bologna

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OttO di Michela Monti – Triskell 2020

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OttO di Michela Monti (Triskell 2020) non è solo, come riportato in copertina, “la conclusione di una saga appassionante”; è anche e soprattutto un romanzo tenero e feroce sul post-umano, sulla responsabilità, sulla disabilità vera o presunta che percepiamo come a-nomalia, a-normalità, dis-umanità. La protagonista che si risveglia dopo un lungo coma rientra nella tradizione utopica/distopica del ritorno alla vita di veglia dopo un’esperienza straordinaria, e straordinario è il plot che ci attende, indipendentemente dai due romanzi precedenti. Succede una cosa curiosa – ho provato a rileggere i due volumi precedenti, 83500 (2012) e M.T.V.M. (2019), e mi sono resa conto che la trilogia funziona anche così – giuro, provare per credere. Quindi: un volume di cui non si può fare a meno se avete già letto gli altri due, ma anche da cui si può agevolmente iniziare la saga, continuando poi con gli altri due. La storia si rigira infatti su se stessa a spirale, avvolgendo il lettore fra le sue spire e facendoci compiere ogni sorta di acrobazia, in un continuo altalenare di fughe, prigionia, disgregazione e ricomposizione. Uno studio, in definitiva, sul nostro presente, su quello che forse ci aspetta, con un risvolto poetico e crudele insieme sulla maternità, sul femminile, sull’amore, sul pregiudizio e sull’amicizia. Tutto in salsa noir, noirissima. (a.c.)

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LA BUGIARDA di Hannelore Cayre

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Splendidamente tradotto da Tiziana Prina, è il nuovo nato delle Edizioni Le Assassine    un romanzo pluripremiato, da cui è stato tratto un film con Isabelle Huppert; acido, arguto e “nerissimo” dalla prima all’ultima pagina, tanto da ricordare a tratti la grandissima Patricia Highsmith. Un incalzante racconto in prima persona che non lascia pause ma connette in una danza vertiginosa Baudelaire e Proust, Audrey Hepburn e Louis Armstrong, l’insalata Miami e la cannabis, un cane capace di sorridere e i creazionisti. Leggendolo, impareremo molto sulla sinestesia bimodale e sui biscottini all’arancia… e non solo. Da non perdere. 

a.c.

HANNELORE CAYRE

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Il campione e l’alchimista di Marco Travaglini

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 Marco Travaglini, Il campione e l’alchimista, youcanprint, maggio 2020, 100 pp., 11€

 Giuseppe Balsamo, meglio noto come Conte di Cagliostro, alchimista e culture di arti magiche del Settecento, si ritrova catapultato nel XX secolo dove stupisce ancora il grande pubblico come illusionista dallo sguardo fascinatorio. In realtà è un segreto collaboratore dei servizi segreti americani, che gli affidano un’importante missione in Italia: deve convincere un famoso skipper, caduto in depressione per un infortunio che l’ha allontanato dalle gare, a riacquistare fiducia in se stesso per poter partecipare a un’importante azione in mare, presso la base NATO alle pendici del monte Conero. 

È così che una storia di spionaggio si mescola con la descrizione di metodi per l’autostima basati su concetti di psicologia, psicanalisi e filosofie orientali, e anche con salutari escursioni che, partendo da Riccione dove lo skipper insegna a futuri velisti, arriva nei luoghi più suggestivi del Montefeltro, da (ovviamente) San Leo fino a San Marino e Mondaino, attraverso Sassocorvaro, Furlo fino ai monti Sibillini. Il tutto con immagini e dettagliate descrizioni dei luoghi. Tanti diversi percorsi tra storia ed ecologia, non solo della natura ma anche della mente grazie alle pause di meditazione yoga corredate da apposite schede con disegni che suggeriscono meditazioni e ispirazioni trascendentali. 

Tante cose in un breve romanzo, che si presta a diversi livelli di lettura come suggerito nella prefazione di Fabio Filippetti ed Elsa Ravaglia. Un metodo efficace per propinare contenuti di vario genere in un contesto narrativo, insomma un saggio (o più saggi in questo caso) organizzato in forma di storytelling. Forse con qualche piccola forzatura e un tono a tratti un po’ didascalico.

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L’ombra del passato, Stefano Sciacca (Mimesis, 2020)

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Torino, il dopoguerra, il jazz. Siamo già intrigati. Se c’è una nota che stride è il titolo – che per gli affezionati del noir ricalca in maniera troppo evidente quello del cult L’ombra del passato (titolo originale Murder, My Sweet), film diretto da Edward Dmytryk nel 1944 e ispirato al romanzo Addio, mia amata di Raymond Chandler (1940). Ecco, se questi sono i numi tutelari di Sciacca (che già si è cimentato in due romanzi e nel saggio Prima e dopo il noir) non possiamo che sottoscrivere. Però non c’era bisogno, davvero, di usare lo stesso titolo. Così come di chiamare un personaggio Cairo (cfr. Il falcone maltese). Detto questo, il romanzo è interessante, perché rivela da un lato la passione dello scrittore per un genere da cui evidentemente è affascinato, e in questo non possiamo che sostenerlo; dall’altro, perché emergono nella sua prosa elementi originali che, quando Sciacca taglierà il cordone ombelicale con i Padri Fondatori, speriamo possa rivelarsi in tutta la sua forza. Ne elenco qualcuno: una prosa spezzata (come il jazz), con una punteggiatura vertiginosa che ricorda quella di Ilvo Diamanti, un buon equilibrio fra dialoghi e descrizioni. E poi: un investigatore privato che si chiama Artusio; il Borsalino e le sigarette Nazionali. Bene, aspettiamo il prossimo caso.

a.c.

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