Il mostro di Roma di Luca marrone

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 “Il mostro di Roma – Delitto, devianza e reazione sociale nell’Italia del Ventennio” Collana UrbiNoir – Studi / Aras Edizioni (pag. 204 – 20€)

Il mistero rimane irrisolto e il caso appassiona ancora. A oltre novant’anni dall’ultimo delitto, le vicende del “mostro di Roma” sono oggetto di studi e corsi accademici.  L’ultimo libro che si occupa della serie di omicidi e violenze sessuali che sconvolsero la capitale fra il 1924 e il 1927 è stato scritto da Luca Marrone, è intitolato  “Il mostro di Roma – Delitto, devianza e reazione sociale nell’Italia del Ventennio” ed è pubblicato nella Collana   UrbiNoir – Studi da Aras Edizioni (pag. 204 – 20€).   Il volume non è solo una ricostruzione delle terrificanti aggressioni avvenute ai danni di sette bambine fra i due e i sei anni di età, ma ci offre uno spaccato del contesto storico, del ruolo della stampa dell’epoca nell’esasperare i toni e generare un allarme sociale che potrà essere placato solo con l’individuazione di un colpevole.  Quando un sospettato finisce agli arresti, i giornali non hanno dubbi: il “mostro” è lui. E anche il regime dell’epoca  tira un sospiro di sollievo, presentando il risultato come un esempio di efficienza del sistema che garantisce la sicurezza dei cittadini.  I titoli cubitali occuperanno le pagine dei quotidiani nazionali più diffusi. Quando 11 mesi più tardi il poveruomo verrà rimesso in libertà, totalmente scagionato,  la notizia avrà spazi irrisori e il malcapitato ne uscirà con una vita devastata.   Quindi, di pagina in pagina, il libro ci fa entrare nelle atmosfere di quasi un secolo fa, ripercorrendo dinamiche,  contraddizioni, errori nelle indagini e pregiudizi che avranno punti in comune con tanti altri casi avvenuti nelle decadi successive.

 Luca Marrone è docente alla  Lumsa  di Roma e ha proposto il caso del “mostro” come materia di studio per gli iscritti al Master in Criminologia applicata e Psicologia forense.  Il materiale di quelle lezioni è stato revisionato ed è diventato il libro più recente quella catena di efferatissimi delitti  che negli anni Venti  del ‘900 sembrano scaturire più dalla penna di un scrittore di  crime stories  che non essere casi reali.  Marrone riporta le descrizioni dei giornali dell’epoca, le scarse testimonianze disponibili, analizza la realtà storica e il modo di agire degli investigatori.  Le indagini si muovono con grande incertezza.  Il possibile aggressore  è descritto in maniera molto vaga: vestito grigio, cappello nero.  La violenza che riversa sulle bambine sue vittime è disumana. Ecco perché le ricerche si concentrano su disadattati, emarginati, persone con forme di anormalità psicologiche, ma non portano a granché.  All’improvviso arriva la presunta svolta: una giovane domestica di una coppia benestante, lui ingegnere, lei elegante signora della borghesia romana,   riferisce di essere stata oggetto di strane attenzioni da parte di un uomo che le si era rivolto con la scusa di darle un biglietto.  Scatta la denuncia. Partono le nuove indagini.  La famosa agenzia Stefani, voce ufficiale del regime fascista, il 9 maggio del 1927 riporta: «Le incessanti, febbrili indagini per la scoperta degli assassinii di Leonardi Armanda e di altre bambine, condotte silenziosamente ma tenacemente sotto la personale direzione del Questore di Roma, sono state coronate da pieno successo (…). L’assassino, raggiunto da un cumulo di prove, che appaiono irrefrangibili, è stato identificato e arrestato. Egli è il mediatore Girolimoni Gino».   I giornali si buttano sulla notizia e consacrano il “mostro di Roma” con ricostruzioni e valutazioni che lasciano poco spazio ai dubbi, prima che qualunque giudice abbia il tempo di esprimersi.   E qui, il libro di Luca Marrone ci fa osservare il percorso che proprio in quel periodo conduce alla fine della stampa libera, all’informazione totalmente allineata con le esigenze del governo di Mussolini. 

Dopo undici mesi di carcere Girolimoni viene prosciolto dal giudice che smonta tutte le tesi accusatorie e le relative prove. Per l’innocente si tratta di  una magra rivincita: perderà amicizie e lavoro. Morirà poverissimo dopo essersi messo a fare il riparatore di biciclette e il ciabattino.  Si capirà dopo che era  stato effettivamente lui a cercare di avvicinare la giovane domestica della coppia, che aveva presentato poi denuncia.    Ma non per importunarla: Girolimoni era l’amante della moglie dell’ingegnere e tramite il biglietto che aveva tentato di dare alla domestica, voleva contattare l’elegante signora per fissare il prossimo appuntamento. 

Nel libro si parla anche di Giuseppe Dosi, appassionato lettore di Arthur Conan Doyle e fan di Sherlock Holmes.  Dosi è un giovane poliziotto che adotta metodi di investigazione innovativi per l’epoca.  Non crede che Girolimoni sia il “mostro di Roma”.  Concentra le sue indagini su un pastore anglicano e ne parla con il magistrato che poi proscioglierà Gino Girolimoni.  Giuseppe Dosi è un personaggio scomodo per il regime. Il pastore inglese, già denunciato per pedofilia, verrà dichiarato non in grado di intendere e di volere.  Riparerà negli USA e rimarrà fuori dal caso. L’ostinazione di Giuseppe Dosi genererà vari nemici, e  sarà addirittura lui a ritrovarsi per diciassette mesi in  una struttura di salute mentale. Verrà reintegrato nella Polizia solo dopo la caduta del fascismo. 

Luca Marrone ci fa scoprire come le tecniche di indagine odierne avrebbero affrontato il caso di “mostro di Roma”,  palesa le ingenuità commesse dagli investigatori dell’epoca,  ci fa capire quanto il contesto storico e sociale abbia avuto una pensate influenza  sull’esito delle indagini e la ricerca del colpevole.  Il potere dei media nel creare un certo “clima” attorno alle vicende di cronaca era  un potente strumento di condizionamento allora e rimane un fattore significativo anche oggi. La ricca bibliografia che chiude il libro edito da Aras  è una ricca fonte di spunti per chi si interessa di criminologia, psicologia e profiling.

Gabriele Cavalera

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Favole da riformatorio di Ugo Cornia

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Una raccolta di venti brevi favole, proposte dallo scrittore modenese Ugo Cornia, che prendono a prestito alcuni personaggi dalle fiabe classiche (da Cappuccetto Rosso a Pinocchio passando per il Gatto con gli stivali e Raperonzolo, che però qui è in compagnia di Cipollonzolo, Aglionzolo ecc.) e anche i classici animali che compaiono nelle fiabe per rappresentare, in modo caricaturale e talvolta grottesco, specifiche tipologie umane: dall’onnipresente lupo affamato (ma qui anche un po’ depresso e disoccupato) alla lontra, dalla gazza all’alligatore, dal millepiedi all’elefante – e non mancano specie meno comuni nel mondo delle favole, come il fennec, lo struzzo o il piviere. Ciascuno con i propri gusti e le proprie manie (anche di carattere sessuale, a differenza delle favole classiche). 

Quello che cambia, rispetto alle fiabe tradizionali, sono il contesto, molto più vicino agli ambienti e ai problemi del nostro tempo, e il linguaggio, emancipato e crudo, provocatorio e anticonformista, fin quasi al turpiloquio (un linguaggio, appunto, da riformatorio). Che in realtà è proprio quello che sentiamo ogni giorno e che un po’ tutti utilizziamo. Perché le favole classiche, che si continuano a ripetere sempre uguali, coi loro antiquati stereotipi, «sono piene di luoghi comuni che ti sviano da una comprensione corretta della realtà», come dice il fennec alla gazza. Talvolta le favole classiche si basano su certezze che non ci sono più, su stili di vita ormai obsoleti, e quindi potrebbero essere persino fuorvianti, ingannevoli, addirittura diseducative. Tanto che alcuni celebri personaggi delle fiabe preferiscono migrare in romanzi più recenti e reali, come i romanzi noir. È ciò che accade a Pinocchio, nella “Favola dei personaggi di favole famose che un bel giorno hanno voluto lasciare la propria favola per trasferirsi in un noir”. Questa favola, che è collocata come ultima, è in qualche modo emblematica, una vera chiave di lettura dell’intera raccolta. Pinocchio, infatti, è stanco di dover fare sempre le stesse cose da più di cento anni, di avere a che fare sempre con gli stessi personaggi (ormai datati nei modi e nel linguaggio) e con le stesse situazioni (ormai decisamente superate). Decide allora di fuggire dalla favola di Collodi per entrare in un romanzo noir (seguendo l’invito del Gatto e della Volpe, che hanno già fatto questo passo prima di lui). Perché «il noir sembrava più realistico, sembrava in grado di trasformare le cose losche che avvengono negli stati contemporanei molto meglio dei vari quotidiani». Inoltre nei noir si guadagnano soldi col traffico degli stupefacenti e le donne fanno sesso, addirittura si può guadagnare col mercato della prostituzione. Altro che la Fata Turchina, che non ha più niente di reale, o il Grillo Parlante, legato a principi obsoleti che nessuno è più disposto ad ascoltare. E allora, una favola dopo l’altra, personaggi tradizionali si trovano a vivere situazioni attuali, realistiche, magari crude ma vere. Lupi sfrattati o con la pensione  minima, che non basta per mangiare, alci disoccupate che si ammalano di depressione, Raperonzolo rapito dalla jihad agroalimentare, un gattino che voleva diventare il gatto con gli stivali ma non ha i soldi per gli stivali, una pecorella smarrita e un lupo emarginato, una vecchia cicogna che ha sviluppato un tale «sentimento dell’estrema tragicità dell’esistere» che per risparmiare lo straziante dolore della vita decide di sopprimere le creature prima della nascita. 

E non manca la morale: ogni favola ha qualcosa da insegnarci, e per giunta qualcosa di attuale, legato ai nostri giorni e espresso con il linguaggio corrente, non con quello dei tempi di Esopo o dei fratelli Grimm o di Collodi. Un esempio per tutti, sia per la morale che per il linguaggio: la favola dello struzzo che ogni volta che mette la testa sotto la sabbia viene inculato da qualcuno (sic), che lui ovviamente non riesce a vedere. Un linguaggio piuttosto crudo, ma di una chiarezza esemplare. E la morale è evidente, e realisticamente noir.

Gian Italo Bischi

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Ettore Catalano, Un’infezione latente (Progedit 2020)

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Ettore Catalano, Un’infezione latente (Progedit 2020) prosegue la saga del commissario Tanzarella, già incontrato in Rosso Adriatico (2018) e Un mare di follia (2019). La vicenda si apre a Capodanno e si conclude intorno all’Epifania: e questa è già una valida ragione per acquistare e regalare questo volume durante le feste… 

Il romanzo è elegante, ben scritto e seducente sotto molti punti di vista. La scrittura morbida e raffinata, la denuncia sociale del razzismo e dell’omertà, l’approfondimento psicologico del narratore-protagonista sono alcune delle altre ottime ragioni per procurarsi subito questo gioiello del noir italiano. 

L’ambientazione ostunese ne fa poi una testimonianza linguistica e culturale suggestiva ed efficace, senza mai cadere nel folklore locale. Un elemento che contraddistingue l’autore, per i palati più fini, riguarda i numerosi riferimenti letterari: troviamo Melville e Pavese, Manzoni e Borges, senza mai cadere nello sfoggio erudito, ma come silenziosi e saggi compagni di un’avventura che – al di là delle indagini, della scena del crimine e degli interrogatori –  sconfina spesso nella riflessione esistenziale e in un rimuginare senza sosta contagioso e fecondo.

Da non perdere. Aspettando il prossimo.                                                                                                      (a.c.)

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QUESTIONI DI “ATMOSFERA”

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di Ettore Catalano, professore onorario Università del Salento

per gentile concessione dell’autore, che ringraziamo.  Cogliendo l’occasione per raccomandare la lettura del suo recentissimo  romanzo Un’infezione latente.

 

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Esiste, in Italia, un dibattito anche molto acceso tra quanti affermano che il “noir” sia un sottogenere del “giallo” e quanti, al contrario, con molta passione critica, ne rivendicano una sorta di autonomia. Premesso che non mi appassionano le discussioni, anche dotte, su canone e generi, devo dire che un romanzo non dovrebbe essere letto altro che come un romanzo, qualunque sia l’etichetta che, frettolosamente gli si affibbia, e, dunque, deve essere considerato sotto l’aspetto dello stile e della scrittura dell’autore, il quale, per buona sorte, sempre tende a violare le prescrizioni “territoriali” dei generi e delle etichette. Sono convinto che l’attuale fortuna del “noir” (in letteratura, nel cinema e nel fumetto d’autore) possa anche stimolare un desiderio di indipendenza dello stesso “noir” dal “giallo”, circostanza che ha spinto anche alla creazione di blog e siti web (ad esempio Urbinoir) sui quali non si è troppo teneri nei confronti di chi considera il territorio del “noir” con sussiego e un po’ di sufficienza accademica. Oggi si parla molto del “noir mediterraneo” e di alcune condizioni o caratteristiche che ne delimitano i confini possibili e lo distinguono dal “giallo”, anche se occorre sempre tener presente la mobilità di quelle delimitazioni e le ibridazioni, tante e sempre molto interessanti.

Partiamo da un dato che pare ormai acquisito, come scrive l’americanista Alessandra Calanchi in <urbinoir.uniurb.it>: il “noir è più che altro una questione di atmosfera, di luoghi, di mood. In esso non è in primo piano il crimine e neppure la detection , la ricerca del colpevole, né il brivido, né il sangue, il “noir” non si accontenta di narrare una storia, ma cerca di trasmettere odori, sapori, suggestioni sui risvolti anche psicologici di un delitto che, forse, tutti potrebbero commettere in un momento particolarmente teso della loro vita, magari in circostanze di esclusione e difficoltà, forse non nelle metropoli in cui il “giallo” classico è nato e si è ambientato (la Londra di Conan Doyle e di Sherlock Holmes, la Parigi di Simenon e di Maigret o l’America di Chandler e di Philip Marlowe e di Hammett, l’autore de Il mistero del falco, da cui venne tratto un celebre film con Humphrey Bogart), ma nelle periferie sociali scomode e degradate del nostro mondo mediterraneo (Fernand Braudel è il padre di questi sguardi storici della scuola delle “Annales”). Non c’è lieto fine nel “noir”, l’equilibrio rotto da un delitto non si ricompone mai come se nulla fosse avvenuto, dopo la scoperta del colpevole (la sua eventuale condanna è un discorso ben diverso e attiene alle problematiche dell’amministrazione della giustizia): il “noir” non punta a questo (o non solo a questo), ma è una sorta di sguardo grandangolare sul sociale, per dirla con la mia collega Alessandra Calanchi dell’Università di Urbino, di cui ho parlato prima. Il “noir” non vuole creare compassione e tanto meno un sospiro di soddisfazione per lo scampato pericolo, non tende a rassicurare, vuol essere, invece, un’occasione, per il lettore, di pensare a quanto accade ogni giorno intorno a noi e dentro di noi: il crimine come parte eclatante di un complesso meccanismo sociale in cui contano anche i drammatici problemi legati alle connivenze tra la parte marcia della politica e la criminalità organizzata, il mondo degli affari miliardari legati allo smaltimento dei rifiuti, all’ecomafia, alla speculazione edilizia, alla sanità negata e violentata da interessi personali, al triste commercio dei clandestini, alle dimensioni ormai mondiali di un esodo forzato legato agli effetti di lunga durata del colonialismo e dell’imperialismo, concetti che ormai latitano nel nostro stantio dibattito politico.

Dunque, non ci sono eroi nel “noir”, altra caratteristica fondamentale, ma solo uomini cha fanno il loro dovere di semplici cittadini o di componenti delle Forze dell’Ordine, senza troppe illusioni su come andrà a finire la loro fatica. In altri termini, il “noir” arriva dove il “giallo” si arresta, almeno ciò emerge non appena ci si immerga nel mondo del grande “noir” che alcuni chiamano anche “mediterraneo”, richiamandosi anche a una storia che, sulle rive del Mediterraneo ha visto anche nascere grandi capolavori della letteratura che si potrebbero anche rileggere, come qualche studioso fa, proprio alla luce delle considerazioni fatte prima. Dalla Bibbia (che inizia con un fratricidio e dunque con un crimine) ai poemi omerici, straordinari esempi di poesia epica, ma anche autentici repertori di sangue e di atrocità (come ogni guerra) Perfino l’Odissea inizia con le sinistre fiamme dell’incendio di Troia e dell’eccidio di donne e bambini e si conclude con una feroce strage di vendetta e di orgoglio smisurato, su cui neppure gli dèi possono fare nulla. Qualcuno potrà dire che qui si tratta di esagerazioni, magari originate, in critici tuttavia intelligenti, preoccupati di trovare conferme a loro tesi, ma bisogna riconoscere un certo fascino a tali suggestive argomentazioni.  E allora l’aggettivo “mediterraneo” cerca di spiegarci la qualità di quello sguardo nel quale la violenza, innegabile, si lega inestricabilmente alla bellezza di uno spazio mediterraneo in una narrazione alla Braudel, in cui aspetti letterari e culturali si legano a realtà storiche territoriali in una sequenzialità di grande respiro e durata. Anche la letteratura, nel corso dei secoli, a poco a poco, si spingerà fino ad indagare, come scelta di campo, lo spazio sociale e psicologico dove può nascere il crimine e autori come Dostoevskj, Poe, Stevenson, Dickens possono dirci molto su questo. Non vi voglio tediare troppo, così, facendo leva, sulla mia stessa vicenda di lettore e di critico, non posso non citarvi le incursioni pirandelliane nel territorio mentale della rivolta contro la banalità e la crudeltà del “buon senso” e Leonardo Sciascia, figura centrale in questa storia, con la sua implacabile ricerca della verità in una società corrosa dalla mafia e la appassionata  sua immersione nella malattia e nella morte, in cui naufraga ogni speranza di giustizia e di verità fino al “cancello della preghiera”.                     

Ma venendo ai nostri giorni, devo farvi alcuni nomi importanti, innanzitutto i romanzi di Albert Camus e la saga marsigliese di Jean-Claude Izzo, il greco Petros Markaris, creatore del commissario Kostas Charitos, il grande Manuel Vasquez Montalban della Barcellona di Pepe Carvalho, del cibo sulle ramblas,  gli italiani Massimo Carlotto, Carlo Lucarelli, Giancarlo De Cataldo e Gianrico Carofiglio (autore anche di un graphic novel Cacciatori nelle tenebre, insieme al fratello Francesco),  Andrea Camilleri (solo in parte apparentabile col “noir”) e molti altri di cui non posso qui farvi i nomi. In tutti questi autori, pur con le debite differenze, esiste un tratto che li accomuna: sono tutte creazioni letterarie in cui viene accentuata l’ambiguità, l’incerta linea di confine tra bene e male, in un intreccio opaco tra interessi criminali e complicità “legali”, la medesima difficoltà di noi lettori comuni ad orientarci in un mondo spesso fatto di omissioni, latitanze, connivenze a livello ormai planetario, nel mondo globale in cui ci troviamo a vivere. Il nostro mondo “mediterraneo”, per continuare a muoverci illustrando l’aggettivo, vive un forte dualismo tra valori forti della nostra identità “mediterranea” (cibo, convivialità, ospitalità, solidarietà, atmosfere azzurre di mare e di vento forte) e violenza, corruzione, avidità e sopraffazione, da cui siamo circondati.

Tirando le somme, premettendo che alcuni critici, come Stefano Priarone, pensano che nel “noir non esistono vere vittorie, e a volte l’obiettivo è soltanto una dignitosa sconfitta, come capita spesso nella vita”, potrei indicare alcuni “porti” lungo questa rotta mediterranea in cui fare scalo, sempre con le debite differenze di stili e di risultati artistici.

  1. Ambientazione legata alle narrazioni e alla geografia mediterranea
  2. Riferimenti al mondo familiare di detective che possono essere figure professionali, anche investigatori privati, o semplici cittadini coinvolti in situazioni difficili
  3. Antieroicità dei personaggi e loro quotidianità
  4. Critica sociale nei modi prima descritti
  5. Localizzazione (non più solo nelle metropoli, ma in una miriade di situazioni territoriali e dei mondi nei quali si esplica il nostro vivere quotidiano).
  6. Devo aggiungere, almeno per me, l’insegnamento importante di Pirandello, un vero antesignano nella discesa nelle profondità del cuore umano e nella messa in crisi del feticcio del “fatto” (mi fanno sorridere quanti dicono “fatti e non opinioni”, dimentichi della piccola circostanza per cui non esistono che opinioni): “Un fatto è come un sacco: vuoto non si regge. Perché si regga bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato”.

La letteratura, anche e soprattutto quella che io cerco di praticare, non indugia a descrivere fatti truci, non si dilunga in piacevolezze dialettali, senza alcun preventivo rifiuto della espressività ineguagliabile delle nostre parlate territoriali, cerca solo di comprendere ciò che si agita nel manzoniano guazzabuglio del cuore umano, in un momento particolarmente crudele e tormentato della storia del nostro pianeta. Mi accorgo, ora, di aver parlato quasi soltanto di ciò che mi sta dentro, dei tanti libri che ho letto, dei pochissimi che mi hanno davvero colpito, insomma di ciò che tento di scrivere, ricordandomi sempre di quanto dice Claudio Magris, quando raccomanda di intingere sempre la penna nell’umiltà e nell’autoironia.

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