Alcune poesie di Mario Meléndez

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Tre chili pesava la morte

Quando nacque la morte
nessuno volle prenderla in braccio
era tanto brutta come le grasse di Botero

Non vivrà molto

disse la madre dopo il parto
rassegnata e assente
come una pietra dinanzi al temporale

Ma la morte aveva negli occhi
una luce indiavolata
un dolce brivido di eternità

Si sbagliarono i medici
la levatrice
e colui che trascorse la notte
telefonando le pompe funebri

Adesso è un bimbo robusto
commentano le infermiere
e a volte perfino Dio gli cambia i pannolini

Selezione poesie Melendez di Mario Meléndez, tradotte in Italiano, disponibili in PDF

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Mario Meléndez (Linares, Cile, 1971). Ha studiato Giornalismo e Comunicazione Sociale. Tra i suoi libri figurano: Apuntes para una leyenda, Vuelo subterráneo, El circo de papel e La muerte tiene los días contados. Le sue poesie appaiono in diverse riviste di letteratura ispanoamericana e in antologie nazionali e straniere. Agli inizi del 2005 ha ottenuto il Premio Harvest International alla miglior poesia in spagnolo consegnato dalla University of California Polytechnic. Parte delle sue opere sono state tradotte in italiano, inglese, francese, portoghese, olandese, tedesco, rumeno, bulgaro, persiano e catalano. Ha vissuto a Città del Messico, dove ha diretto la collana sui maggiori poeti latinoamericani per “Laberinto edizioni” e realizzato diverse antologie sulla poesia cilena e latinoamericana. Attualmente vive in Italia. A gennaio 2013 ho ricevuto la medaglia del Presidente della Repubblica Italiana, concessa dalla Fondazione Internazionale Don Luigi di Liegro. È considerato una delle voci più importanti della nuova poesia latinoamericana. 

Per approfondire e leggere un breve articolo di Gianni Darconza

 

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Mario Meléndez, la morte scende dal suo piedistallo

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di Gianni Darconza

Come ha commentato lo stesso Mario Meléndez, la raccolta poetica La morte ha i giorni contati deve moltissimo al lungo periodo che l’autore ha trascorso in Messico, poiché il Messico e la sua cultura per la morte conferiscono all’opera il tono che la contraddistingue. Non si parla già della morte in un senso rituale o solenne, bensì vi è uno spostamento verso l’elemento ludico e festivo, tanto presente nella memoria collettiva del popolo messicano, nelle sue più profonde radici.

Quella di Meléndez è una morte che affonda le radici sull’ironia, l’insolito, l’assurdo, per dar conto di una realtà fortemente frammentaria. La morte come personaggio di un processo, come parte di un immaginario che volta le spalle a tutto ciò che il poeta cileno aveva scritto in precedenza. Ma vi è pure un dialogo con la storia, la letteratura, la musica, la pittura, il cinema… Attraverso un linguaggio colloquiale e aneddotico l’ironia di Meléndez si pone come critica ai dogmi, alle istituzioni e, in definitiva, a ogni forma di potere.

1024Nella poesia di Mario Meléndez, la morte scende dal suo piedistallo, e si tramuta nel vicino della porta accanto, capace di piangere ai piedi di Cristo sul Calvario, di dialogare con ispettori di polizia per rivendicare la propria estraneità ai fatti, o con personaggi celebri come Michael Jackson e Van Gogh. È una morte resa ancor più grande e sensazionalistica dai mass media con i loro fotografi e macchine da presa onnipresenti, quasi a volere sottolineare il morboso interesse del pubblico televisivo per gli episodi di sangue.

La saggista e critica letteraria Ombretta Ciurnelli, in merito alla traduzione italiana, ha osservato che le “immagini surreali, fuori dal tempo e dallo spazio, si sovrappongono e si inseguono con soluzioni sceniche sorprendenti e spiazzanti non per riflettere sulla morte come fatto individuale e personale, ma come dimensione civile e politica”. E il grande poeta cileno Nicanor Parra, Premio Cervantes per la Letteratura nel 2011, con la mente lucida che lo ha sempre contraddistinto fino ai cento anni di età, ha commentato: “Accidenti, era molto tempo che non leggevo una poesia capace di sorreggersi da sola”.

 (La muerte tiene los días contados), trad. di Alba Metaponte, Rimini, Raffaelli Editore 2013. (Ediz. bilingue spagnolo-italiano)

Per approfondire e  leggere alcune poesie 

 

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Killing me softly di Alessandra Calanchi

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3 febbraio

Lo sapevo, non dovevo uscire stasera. Accidenti a me. 

Erika cammina svogliata, rigida, guardinga. Vorrebbe staccarsi dal gruppo, ma Valentina la tiene d’occhio e se si allontana un passo, due passi, ecco che la chiama. Si direbbe che cerchi continuamente, ostinatamente, di reintegrarla nel drappello che avanza senza una meta precisa, sul molo illuminato e vociante. Sembrano tutti contenti. Tutti a ridere, a scherzare, tranne lei. Erika pensa che non c’è proprio niente da ridere. Cazzo, non c’è proprio niente da ridere.

C’è una festa di paese, una delle tante sagre assurde: sagra del tortello e della bistecca, festa dell’uva, sagra del salume celtico. Chissà chi se le inventa. E in questa stagione, poi! Fa freddo, è buio già alle quattro del pomeriggio, ma che avranno tutti da sorridere?

E’ andata così. Sono settimane, anzi: mesi, che la sua collega Valentina cerca di fare amicizia con lei, che si insinua nella sua vita, nei suoi silenzi. Erika lavora nello studio di un commercialista e si stava benissimo finché non è arrivata Valentina. Bionda, frizzante, iperattiva. All’inizio si limitava a studiarla, come un insetto sotto vetro. Poi è passata  a snervanti interrogatori.

Che fai stasera? Esci? Cos’hai in frigo? Come mai non sei su Facebook? E su Twitter? Ce l’hai avuto un fidanzato? Non pensi che avresti bisogno di sandali nuovi? Capace di continuare così tutta la mattina.

A volte Erika si inventa un lavoro urgente, una telefonata. Oppure dice che deve andare in bagno. Giovanni Tempora, il dott. Tempora, ogni tanto la chiama nel suo ufficio e lei lo benedice mentalmente. Giovanni è serio, non la guarda nemmeno mentre le impartisce ordini. La sua voce è neutra. Forse non sa nemmeno come sia fatta Erika, se abbia o no gli occhiali, che taglia porti di reggiseno. Con Valentina è diverso. Lei lo guarda negli occhi, gli risponde, arriva perfino a  canzonarlo con garbo. Si permette una battuta di tanto in tanto.

Erika non è spiritosa. Non trova mai le parole giuste. E poi a che servirebbero?

Erika è riuscita a separarsi dal gruppo. L’uscita con gli amici di Valentina si è rivelata un fallimento, un vero disastro, come lei del resto aveva puntualmente previsto.

Ora scappo. Torno a casa da sola. Ma no, poi domani dovrei spiegare… ma non ce la faccio più a sopportare questa gente.

Senza quasi accorgersene, Erika si è messa a correre. Scansa persone e carrozzine, cani e bambini, col cuore in gola come se avesse rubato qualcosa, come se fosse inseguita. Poi le pare di sentire il suo nome – Erika! – e allora la prende il panico: entra all’improvviso in un chiosco il cui ingresso è coperto da una tenda variopinta. Una vampata di calore la fa quasi svenire. E’ buio. Una vertigine  la fa vacillare. Non distingue nulla nell’oscurità, solo un bagliore a una certa distanza. Poi, di nuovo, il suo nome.

– … Erika? – è una voce di donna, ma è roca; non è  la voce squillante di Valentina.

  • Chi è? – chiede terrorizzata. – Dove sono?
  • Ti chiami Erika?
  • Sì… ma chi è?
  • Tranquilla, adesso accendo la luce.

Una lampada, ora, rischiara l’ambiente, che presenta uno strano miscuglio di arredamento arabeggiante, indiano, new age e Ikea. Al centro della stanza un tavolo con sopra una sfera di cristallo; dietro la sfera, una signora sorridente ma non troppo; si direbbe un tipo diffidente ma non ostile. Tiene entrambe le mani sulla sfera. L’accarezza, come se fosse un gatto.

  • Mi scusi,  –  inizia Erika. Ma poi non sa come proseguire. E all’improvviso si ricorda di una cosa. – Lei mi conosce?
  • Oh, no,  – risponde la signora. – Ero indecisa, se Erika o Monica, o forse Ermione. L’ho sparata lì.
  • Non capisco…
  • Ah, sì, quando sei entrata. La tua aura. Siediti, ti leggo il futuro.

Erika si irrigidisce. – Non se ne parla nemmeno. Mi scusi – e fa per andarsene.

  • Torni dai tuoi amici? Buona idea. Saranno in pensiero.
  • Adesso basta – sbotta Erika. – E’ uno scherzo, vero? Lei è un’amica di Valentina?
  • No, no. – intanto però Erika si è seduta, e si è accorta con un certo disagio che la signora che le sta di fronte è non vedente. Sul tavolo c’è una candela accesa, e a Erika scappa un sorriso pensando a una scena di un film che ha visto tanto tempo fa.
  • Sì, hai ragione. Frankenstein Junior. Non l’ho visto, naturalmente, ma me lo hanno raccontato.

Erika si muove sulla sedia, a disagio. Vorrebbe scusarsi ma all’improvviso si sente stanca e svuotata.

  • Erika,  – continua la signora – vedo nella mia sfera che sei una ragazza riservata, molto solitaria. Non  ami la compagnia, non ami i social network, sei single. Hai azzerato quasi del tutto la tua vita sociale, giusto? … E allora, che ci fai stasera a questa festa paesana? … Fammi capire… Ah, certo, Valentina… ma i suoi amici non ti piacciono, giusto?
  • Beh, siamo arrivati qui da poco…
  • Sì, ma tu volevi già scappare… Ora ti racconto, se vuoi, cosa ti succederà nei prossimi mesi. Ti va? Ne vedo delle belle…
  • In che senso, scusi? E poi no, non sono il tipo, assolutamente. Non voglio sapere nulla, né del presente né tantomeno del futuro.
  • Sicura? … Guarda che poi ti penti. Non vedo nulla di brutto. Hai una salute di ferro e…
  • La prego, non insista! …
  • Uh, vedo… Erika, perché il tuo frigo è vuoto?
  • Sono a dieta.
  • E perché? Non sei mica sovrappeso.
  • E lei che ne sa? – scoppia Erika. – Se mi vedesse…
  • Per un po’ di cellulite?! Vuoi toccare la mia? … – Erika prova una punta di ribrezzo e fa energicamente di no con la testa. Poi si maledice mentalmente. La tipa è cieca, cazzo! Ma la signora continua a parlare come niente fosse.  – Porca miseria, ma tu non batti chiodo da…. Senti, Erika, capisco i tuoi traumi infantili, ma adesso è ora di darti una possibilità, non credi?
  • Se lo credessi andrei in analisi. Sto bene così, invece. So badare a me stessa. Grazie. – Poi ci ripensa. – Ma lei fin dove riesce a vedere nel futuro?
  • Tre mesi. Tre mesi esatti. Non so perché: mia madre, poverina, arrivava anche a cinque. Mia nonna, poi! Avrebbe potuto dirti anche di che colore sarebbero stati i fiori al tuo funerale. Scherzo, dai… Ma la mia vista è corta. Tre mesi e basta. Ah, ma se torni fra tre mesi, ti dico il futuro per altri tre… e così via!

Erika sorride. Quattro incontri l’anno: spenderebbe comunque meno che andare dallo psicoanalista, e sarebbe più divertente. Magari sarebbe eccitante sapere cosa succederà la settimana prossima…. A lei in realtà non succede mai niente, ma chissà…

  • Esatto: a te non succede mai niente. Ma ora la ruota sta per girare – mormora la signora. – Vogliamo cominciare? Innanzitutto, domani o dopodomani al massimo Valentina ti farà una scenata, per come ti sei comportata stasera; poi ti terrà il muso per almeno una settimana.
  • Fin qui mi pare ovvio…
  • Ah, ma poi le passa, eccome! E sai perché? Perché le fai pena, tanta pena. E una sera mentre è su Facebook a chiacchierare con Tizio e  Caio e a fare la gallina con tutti i suoi “amici” … paffete! Ne incontra uno che sembra ritagliato apposta per te! A lei, lo irrita; ma inizia a pensare che lui, con te, ci starebbe alla grande, che sembrate fatti l’uno per l’altra. Comincia  a sedurlo, senza esporsi troppo; usa il tuo nome anziché il tuo. Insomma, in breve: ti procura un appuntamento al buio.
  • E io? – chiede Erika col cuore che batte, improvvisamente, contro la sua volontà. Dannata adrenalina.
  • Eh tu all’inizio resisti, ti arrabbi, dici che mai e poi mai.
  • E poi?
  • Poi ci vai, all’appuntamento; ti metti in ghingheri, anzi – aspetta un attimo – vai dal parrucchiere e anche dall’estetista con Valentina, è lei che ti scegli l’acconciatura e i vestiti, ti dà consigli.  Ti pareva… Poi arriva il gran giorno.
  • E…?
  • Vai all’appuntamento. Lo individui, da lontano. Tu hai già visto la sua foto; lui invece, la tua, no. Lui si guarda intorno, un po’ spaurito. E’ un gran bel tocco di ragazzo! Valentina non ti ha tirato un gancio. E’ carino davvero. E non sembra neanche uno stupido.
  • E io…?
  • Eh, tu… aspetti… aspetti… Vuoi essere proprio sicura. Pensi che non ce la farai.
  • E…?
  • Mi dispiace, Erika – la signora sorride di lato. – Tu alla fine giri i tacchi e te ne vai. Punto.
  • Ma è sicura?
  • Eh, sì. Alla fine non ce la fai. Te ne torni a casa, benedetta ragazza, e lui se ne torna a casa sua. Fine della storia. Cinquanta euro, per favore.
  • Ma scusi, come fa a essere così cinica? Mi ha appena dato una notizia… di cui avrei preferito fare a meno… e poi non aveva detto tre mesi?
  • Hai ragione:  ma dopo l’appuntamento, non succede più niente. La solita vita. Il solito frigo vuoto. Ah, sì, ogni tanto ordini una pizza, guardi la TV. Che noia. Contenta te…

Erika lascia con rabbia 50 euro sul tavolo, ed esce, arrabbiata. E’ arrabbiata con l’indovina, con se stessa, con Valentina, è arrabbiata anche col ragazzo dell’appuntamento; come se esistesse davvero. Si sente presa in giro, da Valentina, dal ragazzo e dalla signora con la sfera di cristallo; è la storia della sua vita. Intorno la gente continua a sciamare, ridendo e cantando. Di Valentina e amici, nessuna traccia. Erika si incammina verso il deposito dei taxi. Domani dovrà darle delle spiegazioni. Basta questo a farle venire un tremendo mal di testa.

4 maggio

Sono passati tre mesi, e tutto si è verificato puntualmente. Erika ha tenuto un diario, giusto per verificare, per ricordare. Come fa in ufficio, quando appunta le cose che teme di dimenticare. Forse sperava che qualcosa andasse in modo diverso. Invece no.

Valentina ha fatto di tutto per farla incontrare con Sergio. E lei si è lasciata convincere a incontrarlo. Forse perché in cuor suo già sapeva che non ce l’avrebbe fatta. O forse, al contrario, perché sperava di contraddire quella dannata cieca del cazzo.

Invece no. Tutto si è svolto come da copione. Ha visto Sergio da lontano: attraente, sguardo simpatico, intelligente. Forse perfino un po’ timido. Cazzo, cazzo, cazzo! Perché le gambe si sono messe a tremare? Perché il cuore sembrava impazzito? Perché ha pensato “ce la farò” solo quando stava già correndo verso casa, sui tacchi che la facevano sbandare, avvolta in un vestito che ora le pareva ridicolo? Perché, quando è tornata, sempre di corsa, al luogo dell’appuntamento, lui non c’era più?

Suona il campanello. Sobbalzo. Mi avvicino al citofono.

  • Pizza!
  • Quinto piano – rispondo meccanicamente.

Il ragazzo delle pizze è cambiato. Gli dò la mancia. Non sorride, si limita a chinare il capo. Non mi conosce. La serie di fattorini che si sono succeduti nei mesi è impressionante. Meglio così, almeno non si faranno domande. Su di me, sulla mia solitudine.

Poi, d’improvviso, Erika guarda il calendario e scopre che sono passati tre mesi e un giorno. E le viene l’idea di tornare laggiù. Non c’è nessuna festa stavolta, magari il chiosco sarà chiuso. O invece, magari, sarà aperto. Erika guarda l’orologio. Guarda la pizza.

Dopo mezz’ora è in strada. Ha appena gettato il cartone della pizza nel cassonetto e la bottiglia di vetro nella campana del vetro. E’ una persona precisa. Guarda l’orologio. Sale in auto. Mette in  moto. Accende l’autoradio.

Cosa dirà l’indovina? 

Mi riconoscerà?

Si ricorderà di me?

Cosa mi dirà dei prossimi tre mesi? 

Sono pronta a un altro fallimento? 

E per quanto tempo andrà avanti questa storia?

D’un tratto Erika viene presa dall’ansia. Dove sta andando? Farà bene? O questa cosa potrà danneggiarla irreparabilmente? Ha cercato a lungo di dimenticarsi di Sergio, e ora che succederà? Le sarà data una seconda occasione?

Mentre svolta in una strada laterale, Erika vede, all’improvviso, Sergio abbracciato a una ragazza bionda. L’ha visto solo una volta, ma il suo viso le è rimasto impresso nella mente. Il cuore le balza nel petto. E’ lui ! Ed è con un’altra! Troppo tardi, troppo tardi – le mormora una vocina nell’orecchio, nel cervello, come un tarlo.

Camminano allacciati, senza fretta. Ogni tanto si fermano: lui la guarda e le scosta i capelli dal viso, per baciarla. Lei ride. Erika li segue, senza farsi accorgere.

Vede il semaforo diventare rosso. Si ferma, a malincuore. Ma l’automobile accanto a lei prosegue la sua folle corsa ancora per qualche metro, prima di sbandare e di schiantarsi sul marciapiede dal lato opposto. E’ tutto così improvviso che Erika non capisce bene. E’ un quartiere silenzioso. Non c’è un rumore. L’autista riprende il controllo e riparte bestemmiando e rombando. Il semaforo diventa verde, ma sull’asfalto ci sono due corpi. Il verde la acceca, le mani tremano, e vede distintamente il volto dell’uomo steso col viso al cielo.

Saranno morti? Saranno solo feriti? Il cuore batte all’impazzata. Il pirata della strada è scomparso.

Cosa posso fare? Cosa devo fare? Devo chiamare un’ambulanza. Prendere fuori il telefonino dalla borsetta e comporre il 118. Spiegare la dinamica dell’incidente. Aspettare che arrivino. Constatare, insieme a loro, i decessi. 

Oppure sarà morta solo lei: Sergio sarà vivo e potrò occuparmi di lui. Sarò in ospedale al suo fianco, gli terrò la mano, lo consolerò, gli farò dimenticare la ragazza bionda. 

Oppure no. Lui sarà morto e lei no. 

Oppure saranno morti entrambi. Meglio così. Quella troia, quella puttana, me lo ha portato via, me lo ha sottratto. Sergio era mio. Me lo aveva donato Valentina, me lo aveva donato la signora del chiosco. Sergio era mio, doveva essere mio per sempre. 

Il semaforo è diventato di nuovo rosso, poi verde. Erika parte. Dirige la vettura verso i due corpi, e l’auto obbedisce, docile. Il rumore delle ossa spezzate è singolare: sembra di passare sopra a dei pezzi di vetro coperti di velluto.

Estraggo il telefonino dalla borsetta e compongo un  numero. 

113. 

-Buona sera, devo denunciare un incidente. Anzi, veramente non è un incidente. Ho appena ucciso un uomo. Era il mio ex. Ho scoperto che mi tradiva. Ho ucciso anche lei. Sono all’incrocio fra via Duse e via Polo. Vi aspetto, non mi muovo.  Click.

Dopo pochi minuti il suono delle sirene si mescola con le note di una vecchia canzone che trasmettono alla radio. Killing me softly. Mi appoggio al sedile. Chiudo gli occhi. Provo un certo sollievo. E finalmente, vedo.

 

 

 

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Bologna Festa de L’Unità 2014

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 Bologna Festa de L’Unità 2014

10 settembre

Mercoledì

LIBRERIA

Casadeipensieri 2014

20.30 Il Commissario Soneri e la strategia della Lucertola

dialogo di Gianmario Anselmi con l’autore Valerio Varesi,

22.30 Tutti i colori del noir

dialogo con Alessandra Calanchi, Giacomo Manzoli, Cesare Cioni, Marilù Oliva

a cura di A. Calanchi: Arcobaleno noir, Galaad edizioni 2014. 

Genesi, diaspora e nuove cittadinanze del noir fra cinema e letteratura

a cura di A. Calanchi: Dietro le quinte del noir, Aras edizioni 2014. 

Interviste ad Alessandro Berselli, Giancarlo De Cataldo, Tullio Dobner, Joseph Farrell, Serena Frediani, Ruth Glynn, Gordiano Lupi, Marco Malvaldi, Elena Mearini, Massimo Mongai, Minever Morin, Marilù Oliva, Ben Pastor, Marcello Simoni, Valerio Varesi.

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Dietro le quinte del noir

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Alessandra Calanchi pubblica Dietro le quinte del noir –Gli addetti ai lavori si raccontano (Aras Edizioni, pag. 175, euro 14), uno studio composto di interviste a un gruppo di autori che hanno come comune denominatore il noir. Fra gli autori:  Berselli, Casadio, De Cataldo, Lupi, Mongai, Malvaldi, Oliva, Pastor, Simoni, Varesi e molti altri. Interessanteoperazione conoscitiva, questo secondo volume della collana URBINOIR STUDI guarda dietro le pagine per cogliere lo spirito degli autori e delle autrici. Tra gli intervistatori: Gianni Darconza, Paolo Ferrucci, Tiziano Mancini, Marco Rocchi.

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Francesca Battistella, Il messaggero dell’alba, Scrittura & Scritture 2014

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UnknownNon ho letto i due precedenti tentativi letterari di questa autrice (Re di bastoni, in piedi e La stretta del lupo, rispettivamente 2011 e 2012) ma ho trovato questo thriller divertente, ben scritto, piacevolissimo. Ottimo il plot, che si snoda lungo tutta l’Italia concentrandosi sul Sorrentino ma senza trascurare città come Roma, Milano, Bologna, persino Novara; equilibrato il rapporto fra la splendida location (di cui sopra) e la scelta dei personaggi, alcuni dei quali veramente esilaranti; arguto quanto basta, pittoresco ma non troppo. Una pennellata di Camilleri, un tocco di Malvaldi, una sfumatura alla Fred Vargas e soprattutto una regia alla Agatha Christie nulla tolgono all’originalità di questo romanzo che prosegue sì vicende narrate in precedenza, riprendendo personaggi già noti ai lettori assidui, ma si impone senza intoppi e molto gradevolmente anche al neofita.

La vicenda riguarda il campo letterario, o meglio, quella commistione tipicamente italiana fra sagre paesane e festival letterari, gastronomia e cultura, segretari della Pro Loco e flash mob di Zumba. Fra aspiranti scrittori, editors crudeli e critici senza cuore, invidie e gelosie si effettuano efferati delitti ma si svolgono anche sottotrame irresistibili e, spesso, vere lezioni di filosofia esistenziale (non sempre politically correct) che – chiamando in causa ora San Paolo, ora Confucio – travolgono il lettore in un’avventura caleidoscopica veramente degna di essere letta e apprezzata.

 

(a.c.)

 

 

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Il canto del fuoco

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Chi sarà mai in grado raccontare una storia taciuta da tutti, persino dallo stesso protagonista? I personaggi salienti sono pochi e tutti sono scivolati via tra le pieghe della memoria e del tempo come effigi composte da fumo e nebbia: comparse costituite da una sostanza troppo effimera affinché abbiano la forza di imprimere una traccia che testimoni un racconto che io, malgrado non abbia né mani per trascriverlo ne labbra per raccontarlo, mi appresto a narrarvi.

Non vi narrerò di imprese memorabili o di grandi battaglie, ma l’ autentica storia di un cuore troppo grande e troppo tenero per un mondo che appare fatto della sostanza di cui io sono composta. Di questo io vi parlerò: di uno scrigno e di cosa esso conteneva. Questo cuore era pieno di fuoco. In esso ardeva la passione: un incendio che si esprimeva attraverso affetto, rabbia, ilarità, gelosia, esuberanza e tristezza… Esse erano tutte lingue generate dalla medesima fiamma, un incendio che purtroppo colui che lo custodiva in sé non fu più in grado, ad un certo punto della sua esistenza, di controllare senza sopprimerlo. Nessuno, fidatevi di quanto vi riferisco, può contenere efficacemente fiamme di tale intensità senza riportare gravi scottature. E queste scottature, a dispetto di tutte le cure elargite, non riescono mai a guarire del tutto. Serviva un fuochista: qualcuno in grado di plasmare questo fuoco ed incanalarlo nel giusto crogiolo, un individuo che ne comprendesse la violenza ed insegnasse al suo proprietario a gestirlo. Infine, ciò accadde. Il fuoco trovò qualcuno che gli insegnò a bruciare correttamente: parole sagge piovvero su quell’olocausto rovente e ne placarono l’irruenza, motti che convinsero il custode ad abbandonare un’esistenza che lo stava lentamente distruggendo e lo persuasero ad intraprendere un viaggio assieme a colui che gli avrebbe trasmesso il segreto per convivere senza più temere il dono che gli era stato elargito dalla Vita.

Scorrendo come le gocce d’acqua sul viso, gli anni scivolarono via mentre mentore ed allievo si lasciavano alle spalle un mondo divorato da una potenza tirannica che privava l’uomo del suo elemento più essenziale. Durante quel viaggio, il maestro apprese come far ardere quelle fiamme senza conseguenze più gravi del sudore che scendeva copioso dalla fronte e di un sorriso soddisfatto sulle labbra. Il crogiolo tanto cercato venne rinvenuto nella mia prima forma. Ricordo come se fosse ieri la sensazione che provai al momento del mio risveglio: un calore meraviglioso veniva irradiato da chi mi stringeva come se fossi la cosa più importante della sua vita. Per anni rimasi silenziosa accanto al fuoco che mi aveva così teneramente destato, beandomi del suo caldo abbraccio mentre, attraverso me, ardeva felice: felice di guizzare e muoversi senza più dolore o sofferenza. Anche se la mia forma era imperfetta, mai delusi il mio protetto, rimanendogli sempre fedele e lieta di accogliere la sua passione dentro di me. Quando egli sedeva quieto col suo mentore a disquisire di fatti che non riuscivo a comprendere, io ascoltavo attenta, assorbendo come una spugna ciò che ci veniva rivelato da quella lingua capace che attingeva a conoscenze di cui ignoravo anche solo l’esistenza. Sembrava che niente potesse intaccare l’idillio nel quale tutti, io compresa, trascorrevamo le nostre esistenze…

Purtroppo, un giorno appresi che l’essere umano non è resistente alle ingiurie del tempo come lo sono io: la carne si indebolisce, si deteriora, si consuma; non vi è mezzo o strumento che possa impedire che ciò avvenga… Il fodero di colui che fu anche mio insegnante si sfaldò, rivelando che, al di sotto di esso, non rimane nulla: neppure la ruggine. Solo allora compresi quanto le nostre nature differivano da quelle dell’essere umano; di quanto io fossi diversa da colui che mi teneva saldamente stretta a sé mentre un fuoco simile alle pioggia gli scivolava lungo il viso. Eppure, divenire consapevole di questa nostra sostanziale differenza servì solo ad accrescere ciò che sentivo di provare per il mio protetto: se esso era destinato a diventare ruggine, io gli sarei rimasta accanto sino al momento in cui l’ultimo guizzo di quel fuoco che tanto amavo si sarebbe spento. Essere ormai conscia del fatto che, un giorno, egli si sarebbe spento, senza mai più riaccendersi, mi spinse a godere a fondo della sua animosità ogni giorno che da lì in poi vivemmo insieme. Ogni volta che mi convocava per alimentare il suo essere, io immancabilmente rifulgevo assieme ad esso, ballando con il mio insostituibile cavaliere una danza dove il sudore, il rosso, il calore e la soddisfazione formavano un inseparabile quartetto.

Da allora poche volte la mia forma è cambiata, eppure io e colui che proteggevo abbiamo viaggiato molto a lungo. Visitammo luoghi dove un elemento così diverso da colui che amo domina alla ricerca di altri maestri che ci hanno rivelato come bruciare sempre più intensamente, cercammo nuove pergamene che ci narrassero cose che il nostro mentore non ci aveva ancora rivelato, divorammo con il nostro travolgente ardore le mie sorelle che tentarono di sottrarmi il tesoro che da anni ormai custodisco con implacabile zelo…

Ignoro come questa mia storia proseguirà, ora che guardo il proprietario del fuoco che tanto amo che riposa vigile appoggiato alla parete della sua camera mentre mi culla dolcemente tra le sue braccia. Sembra così quieto, così innocuo ora che la sua fiamma ondeggia placida al soffio pacato del suo respiro: solo io so quanto grande e magnifica sia la forza che insieme custodiamo. Egli mi ha regalato una nuova forma, facendomi rinascere in un tripudio di fiamme roventi e di luci abbaglianti al suono sordo di un mio fratello che mi ha donato l’aspetto che mostro ora. Ma non importa quale foggia io mostrerò in futuro: che io abbia una guardia o meno, che il mio filo si intacchi o si consumi, io proteggerò questo fuoco con tutta me stessa.

Lorenzo “Labhràs” Macedoni

lorenzo.macedoni@gmail.com

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Call for papers URBINOIR 2014 (25-26-27novembre)

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Call for papers URBINOIR 2014 

Chlorophyl Killers

Piante che uccidono:  pozioni, veleni, intrugli e tisane della buonanotte

Tra il mondo animale e quello vegetale esiste un rapporto di interconnessione profonda e vitale: l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. Fra uomini e piante, poi, questo reciproco legame è divenuto nel corso dei secoli dominio dei primi sui secondi. Il dominio umano sul regno vegetale è divenuto strumento politico, economico e di morte per altri uomini. L’uso nel linguaggio di analogie – strutturali, formali o di processo – derivate dal mondo vegetale ne testimoniano la connessione profonda con la sua origine. La parola latina humus ha la stessa radice di humanum, così come stirps, in latino tronco dell’albero, dà vita a ceppo familiare, e propago, propaggine, a lignaggio.

Nel complesso e variegato mondo vegetale esistono piante dai poteri formidabili: alcune curano i mali e le sofferenze del corpo, altre sono in grado di farci sognare o di donare il riposo dalle fatiche quotidiane, altre sono temibili nemiche della vita. Poche, specialissime erbe racchiudono in sé capacità del tutto particolari: sono fonte di gioia e dolore, di saggezza e di follia, di appagamento amoroso e di quiete profonda tanto da rasentare il sonno eterno. L’umanità nel corso dei secoli ha imparato a conoscerle e manipolarle a seconda degli usi e delle applicazioni, a classificarle e renderle sicuri strumenti di controllo della vita o della morte.

La lunghissima tradizione scientifica che la conoscenza umana ha realizzato per applicare le singole proprietà delle piante trova un’estesa letteratura in cui non può sfuggire alcuna eccezione; tale letteratura è legata agli usi alimentari, terapeutici, energetici, farmacologici, e alle pratiche collezionistiche, simboliche, rituali. Nelle arti letterarie, poi, l’elemento vegetale ha costituito un topos diffuso e presente in tutte le tradizioni culturali. Pozioni, veleni e intrugli si trovano come motivo ricorrente dal mondo classico a quello magico-esoterico, a quello narrativo di genere.

Si accettano proposte di contributo sulle tematiche presentate, in ambito letterario, linguistico, storico, artistico, scientifico. Saranno privilegiate le piante pericolose, carnivore, spinose, velenose – quelle che, appunto, uccidono. Si prega di inviare un abstract (di circa 400-500 parole) a entrambi i seguenti indirizzi:

giuseppe.puntarello@istruzione.it

urbinoir@uniurb.it

entro il 15 Settembre 2014.

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