1 E perdo la battaglia Vago ancora
2 Sul tuo volto lascivo Nessuno osa Ferita E la promessa è mantenuta. Reggendo il tuo trofeo Salomè
3 Spettro cadaverico Soltanto un mostro potrebbe amarti e infatti mi è ora ben noto chi io sia. Continuo a desiderarti, in quest’urna purpurea
4 Streghe segreti scrigni, la mia psiche è un sacrilegio Sussurri scricchiolii strade Sono folle sono Incubata nella tomba La tua falce sul cuore.
5 Di nascosto mi infilo nel buio, Violando la Legge, questa mia follia Dunque io, rea di una colpa così Perché, giacendo in segreto su di te, Divenendo il tuo sonno, Divenendo il tuo sonno,
Beattrice Noir (pseudonimo di Beatrice Nori) è una giovane attrice, studentessa e autrice di poesie. |
POSTDEMOCRAZIA di Tiziano Mancini
POSTDEMOCRAZIA
di Tiziano Mancini
L’articolo di un intellettuale pose il seme. Ne seguirono alcuni editoriali e i contraddittori degli opinionisti, poi il dibattito approdò in tv, rimbalzando dalle pieghe di un talk show a un’inchiesta giornalistica, finché alla fine divenne la prima notizia di tutti i tg: i migliori leader erano tutti morti. Tra tutti i politici, ma anche tra i manager e i capitani d’industria, sindacalisti e giornalisti, intellettuali e scienziati, leader religiosi e filosofi, a nessuno mancava di avere un predecessore ormai defunto che non fosse stato più capace, più efficiente, più carismatico di lui. Ci si giustificò constatando che nella Storia c’era un’enorme maggioranza di morti rispetto ai vivi, ma l’affermarsi del concetto fece sì che si addivenne alla decisione finale: dare il voto anche ai morti. Fu una scelta sofferta e discussa, ma il degrado della civiltà umana era tale che il collasso era ormai imminente, miliardi di esseri umani erano in fuga dalle loro isole ormai sommerse dalle acque, dalle terre un tempo floride ridotte a deserti invivibili. Le città esplodevano negli intasamenti del traffico e soffocavano dentro nere nubi di gas asfissianti. Le cloache ospitavano masse di diseredati che si cibavano di escrementi: mutazioni genetiche legate all’istinto di sopravvivenza consentivano anche questo, ma per quanto tempo ancora non era dato di sapere. In un contesto simile, i morti, che erano la stragrande maggioranza degli elettori, ebbero gioco facile nell’imporre i propri modelli.
Nei supermercati i cibi un tempo più desiderati erano diventati sgraditi e restavano sui banchi anche a prezzi stracciati. Il cibo che un tempo era riservato agli amici a quattro zampe andava a ruba e costava sempre di più. I negozianti diffondevano miasmi di animale decomposto nei reparti della carne e degli insaccati per renderli più appetitosi: appena i vermi facevano capolino quella nuova clientela si accalcava all’acquisto sconsiderato dai prezzi senza più controllo. Il cibo tuttavia non aveva il tempo per avariarsi, per cui lo si comprava ancora fresco per poterlo lasciare nei frigoriferi spenti, nelle terrazze assolate, nelle cantine malsane. Mosche e penticane erano i nuovi animali domestici, i nuovi fidati padroni delle cucce e dei cestini imbottiti.
Tutto questo non poteva che favorire l’ascesa di un leader che riassumesse in sé tutte le caratteristiche di questa putrescenza globale. C’era solo un problema. Silvio era ancora vivo. Nessun cadavere, per quanto repellente, avrebbe avuto lo stomaco di votarlo, a meno che non fosse stato finalmente una carogna vera. Quando un sondaggio glielo confermò, senza pensarci due volte, decise di uccidersi. Sarebbe stato nuovamente il leader della maggioranza, di nuovo in sella, e stavolta per sempre, per l’eternità.
Così fece. E il progresso continuò.
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IL TUNNEL di Tiziano Mancini
IL TUNNEL
di Tiziano Mancini
Non sto qui a tediarvi con le ragioni che mi hanno portato a prendere la decisione di uccidermi, tanto non sarete voi a farmela cambiare, anche perché, sapendole, non fareste che darmi ragione. Il fatto è che ora sono al volante, in cerca di un muro contro cui schiantarmi. Ecco, potreste indicarmene uno, piuttosto. Ma la Panda, accidenti, per essere davvero sicuro la devi lanciare.
Prendo la Superstrada.
90…100…120. Molto bene.
E adesso? Non c’è un muro, solo guard-rail, e i frontali sono al di là degli oleandri. Ecco la galleria. Già, oltre il tunnel c’è un bel muro spartitraffico. Schiaccio tutta la rabbia sul pedale, e mi lancio nel buio. Rivedrò per un attimo la luce, l’ultima luce della vita, poi la fine. Poche centinaia di metri.
La luce. Dove?
Davvero gli ultimi attimi sono interminabili. Pensare di avere solo un minuto di vita è come quando a vent’anni hai la vita davanti. Il resto della vita è sempre una vita intera. Certe scadenze sono come donne civettuole, si negano proprio quando le vedi più vicine. Così la morte dilata all’infinito l’ultimo istante. Non si muore. Si resta là, sulla spiaggia, ad aspettare di prendere il mare. Nulla accade, e si attende che tutto accada. Tira su l’ancora, allora, affronta la tempesta e torna, se puoi, poi raccontami com’è fatto l’oceano. Solo allora sarò disposto ad ascoltarti, ché non conosce il mare chi resta nel porto.
E’ lungo, questo tunnel, però.
Pareva fosse più corto. La Panda vibra in modo impressionante e i pensieri, già convulsi, si mescolano al rumore delle lamiere. Anche l’auto presente la morte. Già, anche lei morirà. Il lamento di metallo. Non ci sarà carrozziere capace di salvarla, la cavallina storna, la camera verde. Ho perso la sintassi, s’è gettata da un finestrino, la consecutio temporum dall’altro. Lasciatemi finalmente sconvolgere i ritmi della mia eloquenza: nessuno è più costretto a comprendermi, ed io so tutto quel che mi dico. La festa comincia e sono l’unico invitato, privilegio, smania d’irregolarità, ma presto tornerò nei ranghi, è solo una vacanza mentale. Sfogati pure: manca pochissimo ormai.
Ma quando arriva ‘sto cazzo di muro, quant’è lungo ‘sto cazzo di tunnel?
La semicurva è finita. Rettilineo nel buio. Non vedo la luce dell’uscita. In pieno giorno. Almeno un barlume. Guardo lo specchietto. Buio anche alle spalle. L’avrò fatta mille volte, ‘sta maledetta galleria, ogni volta dicevo “perché cazzo avrò acceso i fari, ch’è già finita?”, e adesso… Proseguo. Passa mezz’ora, mezz’ora! La macchina continua ad urlare, viaggiando verso lo schianto. Non ho mai sollevato il piede dal pedale.
Un’ora.
Basta.
Fermo la macchina. La ventola pare un aereo in picchiata. Scendo. Strada asfaltata, muro di cemento. Lo tocco: normale, normalissimo. Avrò sbagliato strada. Sarà una galleria nuova.
Riparto.
Dall’altra corsia non viene nessuno. Altra mezz’ora di guida.
Basta.
Faccio inversione. Se anche faccio un frontale, tanto meglio. Altre due ore di inutile guida. Stremato, fine della benzina. La macchina si ferma, lei salva.
Scendo. Vedo la mia figura che si inoltra nel profondo, in cerca di un impatto che non trova. Resto a guardarla così, non posso farne a meno.
Un’ombra nel buio, che si allontana, ma non scompare.
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Ypsilon noir di Alessandra Calanchi e Marco Monari
YPSILON NOIR
di Alessandra Calanchi e Marco Monari |
Acquistai la mia Ypsilon nel lontano 2001. Lo ricordo perché fu l’anno in cui crollarono le Twin Towers a New York – nessun collegamento, per carità: ma è una data che non mi è possibile dimenticare. L’avevo acquistata solo da pochi giorni, e profumava ancora di automobile nuova. Quell’odore particolare che non sai se ti piace o no – capite, vero? Un odore che non si dimentica. Ero in auto quando, accendendo l’autoradio su una frequenza a caso, venni a sapere della tragedia. Non l’imparai, come tanti altri, dalla famosa sequenza dei crolli gemelli, visti in ripetizione infinita nel piccolo schermo della TV. No. Lo appresi dalla radio della mia Ypsilon, quindi il dramma che si consumava laggiù mi sorprese mescolandosi all’odore della mia automobile nuova di zecca. Tutto qui.
Nei primi mesi, la mia piccolina mi stupì con la sua manovrabilità, con i freni ben misurati, con la frizione perfetta, con i pedali morbidi e con la bella carrozzeria nera tirata a lucido. Era un’automobile piccina per un uomo della mia stazza, me ne rendevo ben conto; un’auto più adatta a una studentessa, o a una giovane impiegata, che a un cinquantenne. Eppure, per girare in città la mia auto era insostituibile: rapida, sinuosa, facile da parcheggiare, graziosa, si rivelò una compagna silenziosa e fedele, instancabile e affidabile. Non ci crederete: arrivai alla soglia dei 100.000 km senza quasi accorgermene. La tenevo in garage, s’intende, e la portavo regolarmente dal mio meccanico di fiducia; la mia Ypsilon non aveva un graffio, e spesso visitavo l’autolavaggio per offrirle un po’ di sollievo dall’arsura dell’estate, o al contrario, d’inverno, per darle una ripulita dopo una giornata di nevischio misto a smog. Accadde poi che dovetti recarmi per qualche giorno all’estero per lavoro. Era per me una novità, un’anomalia – sono un uomo che ama la sua routine – eppure accettai la proposta che mi fece il capo senza esitazione. Da anni non mi spostavo dalla mia città, se non per brevi viaggi sul territorio nazionale, e in quei casi avevo sempre utilizzato la mia automobile. E ammetto che l’idea di un cambiamento, sebbene per pochi giorni, mi attirava. Ero pronto a imbarcarmi su un aereo, cosa che non mi accadeva da oltre vent’anni, e così feci senza pormi troppi problemi. Restai all’estero – si trattava della Spagna – per pochi giorni; lavorai, sì, ma mi dedicai anche a visitare musei e a passeggiare per strade sconosciute e affascinanti. Tornai infine quasi a malincuore, ripromettendomi tuttavia che avrei cercato nuove occasioni per ripetere questa piacevole esperienza. Camminavo leggero, portando un piccolo bagaglio a mano e un trolley che risuonava nel silenzio confortevole del garage, quando mi accorsi già da una certa distanza che la mia automobile, parcheggiata nel box dove l’avevo lasciata, aveva una portiera visibilmente danneggiata. Avvicinandomi di più mi accorsi che tutti i vetri erano i frantumi: i sedili interni erano pieni di frammenti piccoli e taglienti, e perfino gli specchietti retrovisori erano stati divelti. Più che irritato, ero stupito dalla rabbia che aveva evidentemente animato la mano di chi aveva deciso di compiere quel massacro. Com’era possibile? E perché solo la mia auto, fra tante, era stata penalizzata da quell’ira diabolica? Carezzai lievemente un sedile, poi ritrassi subito la mano già sanguinante. Non era possibile entrarci; guidarla in quelle condizioni, poi, era fuori questione. Telefonai dunque all’assistenza e mi preparai alla lunga serie di seccature che mi aspettava (pagare il carro attrezzi, telefonare all’assicurazione, parlare con il carrozziere, fare la denuncia ai carabinieri, ecc.), e che mi tennero effettivamente impegnato nelle giornate successive. Finalmente, riebbi indietro la mia cara Ypsilon. Era bella, pulita, nera e sorridente: insomma, era tornata come nuova – anche se talvolta, devo confessarlo, dalle recondite pieghe dei sedili grigio perla sarebbero per lungo tempo continuato a spuntare come per incanto infinitesime schegge di vetro che mi si conficcavano in una mano, o in un fianco; non mi facevano troppo male, ma mi ricordavano dolorosamente l’accaduto, quasi che non dovessi mai dimenticarmene. Nel frattempo, arrivai alla soglia dei 130.000 km. Cominciai a pensare che forse era venuto il momento di cambiare auto. Ma non ero sicuro. Volevo davvero una nuova utilitaria da città? O piuttosto era venuto, al culmine della mia pur modesta carriera, il momento di concedermi un’automobile più potente? E poi: volevo un’auto nuova o un’auto usata? Mentre consideravo le varie possibilità, mi accadde di trascorrere un fine settimana con amici, in montagna. Andammo via in pullman: era inverno, c’era una bella neve e riuscimmo a sciare molte ore con grande soddisfazione, come ai vecchi tempi. Tornai stanco, abbronzato e felice. Un’unica piccola preoccupazione riguardava la mia auto. Per questo, appena arrivato, mi guardai intorno nel piazzale: la mia auto era lì, bella e fedele. Nessun danno. Che sollievo. Mi attardai dunque a salutare gli amici, a raccontare gli ultimi aneddoti, a scherzare e salutare. Li vidi ripartire tutti. Non avevo fretta: era già l’una di notte, ma l’indomani era domenica, potevo prendermela con calma. Entrai in auto sorridendo, pronto ad accendere il motore e a ritrovare il confortevole tepore della mia Ypsilon. Ma la chiavetta si mosse a vuoto. Nessun rumore. Nessuna luce sul cruscotto. Silenzio. Naturalmente, la batteria si era scaricata mentre ero via. Accidenti! Pensai. Eppure, mi sembrava di averla fatta sostituire non più di due mesi prima. Possibile che mi sbagliassi?… Ma era inutile, anzi era dannoso, perdere tempo. Provai subito a chiamare gli amici sui vari cellulari: niente. Del resto, avevamo scherzato fino a poco prima su quelli che tengono i cellulari sempre accesi, specie di notte. Il fiato iniziava ad appannare i vetri. Cazzo, la temperatura era abbondantemente sotto lo zero. Cercai il numero dell’assistenza: l’avevo sempre tenuto fra le pagine del libretto di circolazione. Eppure, niente. Non c’era. Sconsolato, ripresi in mano il cellulare per tentare una connessione a internet e trovare qualche numero per l’emergenza. Ma il telefono si spense nel medesimo istante in cui lo toccai. Batterie scariche. Cazzo. E il caricabatteria da auto? Ero sicuro di averlo messo da qualche parte. Ma dove? E comunque a che mi sarebbe servito, idiota, visto che il motorino d’avviamento non funzionava? Potete bene immaginare cosa feci: m’incamminai a piedi verso casa. Lasciai valigia, sacca e sci in auto (gli sci sul tettuccio, naturalmente) – e iniziai a camminare. E camminai. Camminai. Camminai fin quasi a non sentire più mani e piedi. Arrivato a casa, trovai il numero; telefonai; la macchina fu recuperata. Gli sci no – in meno di tre ore erano stati divelti dal portapacchi, per di più con un attrezzo che mi aveva distrutto mezzo tettuccio, segnato la portiera e spaccato il vetro posteriore. Ma ero a casa. La settimana scorsa ho preso la solenne decisione. Ho visto l’automobile che cercavo: un bel Freelander verde scuro, massiccio, elegante, adatto a me. Sono entrato nella concessionaria e l’ho acquistato. E’ stato un colpo di fulmine. Ho pensato: è giunto il momento di farla finita con questa automobilina da città, vecchia, viziata, e sfigata. E’ ora di rifarmi un’immagine, di voltare pagina. Bye bye, Ypsilon. Hai fatto il tuo tempo. Sono arrivato a casa e sono sceso in garage per iniziare a svuotare la macchina. Ho aperto la porta e… la Ypsilon non c’era. Eppure ero sicuro di averla messa in garage, cazzo. Ma dove avevo la testa? Dove l’avevo lasciata? Alla posta? Al supermercato? Al lavoro? Che seccatura, accidenti. E poi, suona il telefono. Numero sconosciuto. Sì? Rispondo. Sono i carabinieri. Mi chiedono se mi risulta che l’auto Ypsilon targata AD 726IO, di mia proprietà, si trovi attualmente in un fosso, in aperta campagna. Non so che rispondere. Penso inizialmente a uno scherzo. Poi vedo lo squarcio nella porta del garage. Mi era sfuggito perché sono entrato dall’ingresso interno, dalla casa cioè. Ma lo squarcio è veramente grande. Ci può passare comodamente una persona. Anzi, un’automobile. Quasi mi dimentico che al telefono c’è un maresciallo che sta aspettando la mia risposta. Rispondo automaticamente, intanto mi incammino di nuovo al piano di sopra. Il maresciallo ipotizza che l’auto sia stata rubata, poi si sia schiantata contro un palo e sia finita in un fosso. Ma c’è un particolare inquietante – non è stata trovata nessuna traccia. Nessuna traccia. Oggi, all’epoca in cui si risale al DNA anche solo da una goccia di saliva o di sudore. Gli chiedo dov’è, lo saluto rispettosamente. Chiamo un taxi, lo aspetto. Arriva. Parto. Arrivo sulla scena del crimine. La mia Ypsilon è quasi accartocciata su se stessa. Più che un furto, pare un omicidio. Anzi, no: più che un omicidio, si direbbe un suicidio. I carabinieri ridacchiano. Io no. Vedo la targa, mezza distrutta e annerita dal fango. Si leggono solo le prime due lettere e le ultime due. E il numero centrale, un 2, nell’incidente si è modificato, e sembra una D. AD — D — IO. |