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Intervista di Gianni Darconza a Giancarlo Carofiglio

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URBINOIR: Punto di partenza è una frase che ho letto sul tuo conto che affermava: “Gianrico Carofiglio è, senza dubbio, uno dei migliori autori italiani di romanzi neri” (Il Piccolo). Il noir è genere di moda, sia in Italia che all’estero, forse perché è romanzo sociale adatto a scavare dentro situazioni di disagio, violenza, corruzione istituzionale e politica, ma anche dentro la mente degli individui, rivelando le inquietudini della gente. Secondo te quanto c’è di vero in tutto questo? E, anche se so che a nessun autore piacciono le etichette, ti sembra che la serie di romanzi incentrati sull’avvocato Guerrieri rientri nel genere noir?

CAROFIGLIO: Io sono sempre stato d’accordo con quello che diceva Chesterton, l’autore di Padre Brown, e cioè che i romanzi si dividono essenzialmente in due categorie, quelli scritti bene e quelli scritti male. Già questa citazione credo che la dica lunga sulla mia idiosincrasia, poca passione per i generi. Detto questo, sono certamente delle etichette che possono aiutare a capire alcune cose e vanno maneggiate con cautela, intendo le etichette di genere, ed è vero quello che hai detto sul fatto che certamente il buon romanzo noir è uno strumento forse più affilato per capire certe contraddizioni della modernità. La questione però è un’altra e qui veniamo anche alle cose che scrivo. Ci sono romanzi che si prestano, a seconda di come li si guarda, ad essere classificati in una maniera o in un’altra o in un’altra ancora. Quindi non c’è dubbio che la serie (io non amo parlare di serie)… la sequenza di romanzi che ha come protagonista Guerrieri può essere ricondotta alla categoria del noir o addirittura, per quanto riguarda l’ultimo, della detective story. Però poi per me si tratta anche e soprattutto di altro, cioè lo schema riconducibile al genere per me è uno strumento narrativo piuttosto che un fine. Il fine è un altro, e cioè raccontare certe dinamiche psicologiche, e un certo sviluppo dei personaggi in una epoca data.

URBINOIR: Quindi l’aspetto psicologico come uno degli elementi più importanti del romanzo?

CAROFIGLIO: Per me è una questione fondamentale. Il racconto dei personaggi.

URBINOIR: Quando un genere diventa di moda, si comincia anche a produrre molta spazzatura, perché pur di accontentare il mercato editoriale, si tende a scrivere molto talvolta a scapito della qualità. Di che cosa ha bisogno il romanzo italiano oggi per evitare questo pericolo?

CAROFIGLIO: Io devo dire che non mi piace fare lezioni agli altri e quindi quello che dico va trattato con estrema cautela. Però la mia sensazione, pur non leggendo moltissimi romanzi italiani contemporanei, è che ci sia forse un eccesso di avviluppamento, diciamo, su piccole dinamiche private che fa conto di situazioni viste e riviste, senza una capacità di grande racconto romanzesco. Lo vedo piuttosto raramente questo. Quindi ci vorrebbe la capacità di sollevarsi un po’ e di guardare più dall’alto la materia che viene raccontata. Ci sono moduli narrativi, che poi ritroviamo sotto certi aspetti anche nel cinema, che danno una sensazione un po’ angusta.

URBINOIR: Da lettore dei tuoi romanzi ho avuto un’impressione particolare rispetto ai tuoi personaggi, e cioè la sensazione che ogni equilibrio raggiunto nella vita sia estremamente instabile, col rischio di sprofondare nel baratro della follia quotidiana. Questo è evidente in particolar modo nel Guerrieri di Testimone inconsapevole, ma non solo. E forse questo è uno degli aspetti più inquietanti dei tuoi libri che rimangono impressi nel lettore: la scoperta che il caos è la norma e l’ordine non è che una “perfezione provvisoria”.

CAROFIGLIO: La dialettica tra sanità e follia, fra ordine e caos, è fortemente presente in Il passato è una terra straniera, che è un romanzo senza Guerrieri, e, anche se non se ne sono accorti in molti, nel piccolo romanzo Né qui né altrove. Ciò detto, è vero che anche nei romanzi di Guerrieri c’è questa dialettica. Io non enfatizzerei eccessivamente il trionfo del caos. Io vedo piuttosto questo percorso di personaggi in bilico tra caos, che è quello che normalmente ci circonda, fino a quando non c’è l’azione umana, e soprattutto non c’è la parola e il racconto che mette ordine nel caos. Questo l’ho detto in modo esplicito fra l’altro in Ragionevoli dubbi. Ma come dicevo, il tema proprio della pazzia è trattato in maniera esplicita in Il passato è una terra straniera.

URBINOIR: Restando sul tema del racconto, cito a memoria parole tue: “Le storie sono tutto ciò che abbiamo”. Perché è così importante raccontare storie? È forse qualcosa che si sta perdendo nella società contemporanea, a causa dei ritmi frenetici che ci impone la vita?

CAROFIGLIO: Ma io non credo che si stia perdendo. Noi raccontiamo storie in tutti i momenti della nostra vita. La nostra esistenza è segnata dal racconto di storie e certamente il romanzo è la forma più alta del racconto. Le storie sono così importanti per quello che dicevo prima, perché mettono ordine nel caos.

URBINOIR: So bene che chiedere che cosa c’è di Carofiglio in Guido Guerrieri sarebbe una domanda scontata, a cui del resto hai già risposto in occasione della tua presentazione a Urbino. Per questo voglio ribaltare la domanda: in che cosa si discosta Guerrieri dal suo autore e in che cosa vorrebbe Carofiglio assomigliare di più al suo personaggio?

CAROFIGLIO: Alla prima parte della domanda non so cosa rispondere, che cosa c’è di mio che non c’è in Guerrieri? Non saprei proprio rispondere, perché implica una capacità di approfondimento introspettivo di cui non sono dotato. La seconda parte invece coglie un aspetto importante della questione del rapporto tra autore e personaggio che ritorna, perché dopo un poco il problema è proprio quello: quanto del personaggio comincia a riversarsi sull’autore e quando può succedere che l’autore stesso si possa chiedere in situazioni date che cosa farebbe lui. Il che accade effettivamente. Ed è un fenomeno piuttosto interessante. Forse più psichiatricamente che letterariamente. Però accade veramente.

URBINOIR: C’è una frase interessante de Il giovane Holden di Salinger, e cioè che i libri migliori sono quelli che quando uno ha finito di leggerli vorrebbe che l’autore fosse suo amico per potergli stringere la mano di persona e telefonargli ogni volta che lo desidera. Quali sono gli autori (non necessariamente contemporanei) che vorresti per amici? E perché?

CAROFIGLIO: Mah… Io avevo una grandissima infatuazione per esempio per un autore, che non è un autore di romanzi, ma uno scienziato, Konrad Lorenz, su cui poi si dissero anche cose non belle e io rimasi davvero male. Qualcuno parlò, e fu poi smentito, di cose sue…, su possibili suoi piccoli cedimenti, di razzismo… Io credo che questa cosa non sia mai stata accertata. Ma insomma, indipendentemente dal dato storico, io quando leggevo i libri di Konrad Lorenz, avevo tredici o quattordici anni e volevo fare lo scienziato e volevo occuparmi di animali, avrei voluto poter parlare con quel signore. Ho un ricordo molto vivido di questa sensazione. Poi c’è qualche altro autore che avrei voluto conoscere e sfortunatamente poi ho conosciuto ed è stato molto deludente.

URBINOIR: Puoi fare un esempio? Si può fare qualche nome?

CAROFIGLIO: No, non mi sembra elegante. C’è qualche autore importante che mi piace molto che ho conosciuto sfruttando l’opportunità che mi veniva dal fatto di aver scritto dei libri. E mi sono pentito di aver chiesto di conoscerlo. Può succedere. Anzi direi che forse è frequente che ci sia una differenza notevole tra quello che uno scrive e quello che uno è. In generale è sconsigliabile conoscere autori che ti sono piaciuti.

URBINOIR: C’è un episodio che mi ha colpito in modo particolare, ed è quando Guerrieri entra in un taxi e scopre sul sedile una pila di libri e si stupisce di trovarli proprio lì, in quel posto. Ne nasce uno scambio di opinioni tra lui e il tassista sulla letteratura. Al punto che quando giunge il momento di scendere dal taxi lo fa a malincuore. Dai tuoi romanzi viene fuori la tua grande passione per i libri, il cinema, la musica, la cultura in genere. Quanto è importante la letteratura in un paese come l’Italia in cui, stando alle statistiche, si pubblica sempre di più e si legge sempre di meno?

CAROFIGLIO: Beh… Quanto sono importanti? Sono fondamentali. Non riesco neanche a immaginare che cosa potrebbe essere, o potrebbe essere stata la mia vita senza i libri che peraltro ho cominciato a maneggiare e a leggere da quando ero molto piccolo. Entravo nelle librerie da ragazzino, già a dieci anni andavo a curiosare, a comprare libri. Per me il mondo senza libri è inimmaginabile. La lettura, non solo in Italia, non è una cosa che riguardi la maggioranza della popolazione. Certo in altri paesi si legge di più anche se poi sono dati che vanno disaggregati perché si leggono sì più libri ma molti sono di livello bassissimo. Ma certo, la situazione in altri paesi con indici di lettura più alti è migliore che in Italia. Peggio per loro. È una battuta naturalmente… Ma insomma è ovvio che la crescita da tutti i punti di vista, e anche da un punto di vista culturale, della popolazione è un percorso lento e accidentato. Però io non sono pessimista. A me piace pensare, piuttosto che a quelli che non leggono, che sono tanti, ai tanti, tantissimi che invece leggono. Con l’idea di appartenere a quella comunità che, io credo, si allargherà. E questo è confortante.

URBINOIR: Nei tuoi libri c’è una tecnica interessante che permette di misurare, attraverso l’arma dell’ironia, lo scarto tra il detto e il non detto. Tra ciò che uno pensa veramente e la frase di circostanza che impone il buon vivere sociale. Ho preso come esempio un brano tratto da Ad occhi chiusi, ma ce n’erano moltissimi altri. È quando Guerrieri e la suora discutono sull’Arte della guerra di Sun Tzu. La suora chiede: “Giusto. Hai letto quel libro?”. E Guerrieri pensa: “No, ho un manuale con tutte le citazioni utili per ogni circostanza. Questa l’ho presa dal capitolo: Come impressionare le suore maestre di arti marziali.” Poi in realtà risponde con un banale “sì”. Significa forse che l’individuo nella società è un ipocrita, che è diventato prigioniero delle convenzioni sociali o del suo ruolo?

CAROFIGLIO: Ma no, non lo è diventato. Le convenzioni sociali ci sono sempre state ed è bene che ci siano. Se dicessimo sempre quello che pensiamo la vita sarebbe un inferno. Però appunto lo scarto tra quello che pensiamo e quello che diciamo, e nella maggior parte dei casi diciamo giustamente in maniera un po’ ipocrita, è uno scarto divertente e mi permette di far vedere in controluce diversi moduli di pensiero. Non c’è un elemento di critica sociale in questa scelta stilistica, ma c’è una scelta di uso dell’ironia e dell’autoironia, che per me sono molto importanti quando si racconta un personaggio di quel tipo.

URBINOIR: Un altro degli aspetti interessanti dei tuoi romanzi è l’ambiguità. Dopo averli letti ho scoperto di provare simpatia per alcuni spacciatori, di ammirare una ex prostituta che gestisce un bar per omosessuali, di tifare per una donna che ha ucciso un uomo a colpi di arti marziali. Tutti sentimenti piuttosto inquietanti. Era l’effetto che volevi?

CAROFIGLIO: Direi di sì. (Sorridendo) Direi di sì. Perché l’idea del bianco e nero la trovo insopportabile. Sfortunatamente è più complicato.

URBINOIR: Restando sul tema dell’ambiguità, lo scrittore messicano Carlos Fuentes, in relazione al romanzo ispanoamericano, afferma che essa nasce da un contesto rivoluzionario. Nelle rivoluzioni i fuorilegge possono diventare eroi e gli uomini di legge possono diventare i cattivi. In quest’ottica ti senti un po’ rivoluzionario?

CAROFIGLIO: Non direi rivoluzionario… Direi che è un po’ enfatico definirmi così. Non c’è dubbio che qualsiasi arte, qualsiasi letteratura che non sia puro e banale intrattenimento, si fa carico della complessità e appunto dell’ambiguità del mondo non per riprodurla in maniera chiara ma per renderne conto nei suoi connotati di verità in quello che si scrive. Rivoluzione a parte, credo che senza ambiguità non c’è letteratura. Il che differenzia la narrativa commerciale dalla buona letteratura. E quella commerciale non mi interessa molto.

URBINOIR: In generale gli italiani (e io sono tra quelli) non nutrono una grande fiducia nella giustizia. La lentezza burocratica, i tanti cavilli legali, l’incertezza della pena, formule come “scadenza dei termini di custodia cautelare” sono avvertiti un po’ come un insulto per la gente comune. Trovo che questa sfiducia venga mitigata attraverso la lettura dei tuoi romanzi. E non perché ci mostrino che tutto funziona bene, ma perché mostrano che non tutto funziona male, che non tutti i funzionari o gli avvocati sono corrotti e che per valutare bene la complessità della questione bisogna vedere le cose da dentro, attraverso gli occhi di un avvocato.

CAROFIGLIO: Penso che sia una giusta chiave di lettura. Ci sono cose che vanno bene e cose che vanno male. Bisogna evitare l’enfasi retorica e qualche polemica su quelle che vanno male. Naturalmente io non scrivo questi romanzi per dire che le cose vanno bene, scrivo per fare altro. Come abbiamo detto prima, per raccontare lo sviluppo dei personaggi. Naturalmente il contesto, che è del tutto realistico, mostra quello che hai detto, è vero, e ciò mi fa piacere.

URBINOIR: Che cosa ne pensi della giustizia italiana? E che cosa dovrebbe cambiare?

CAROFIGLIO: Questo è un discorso molto lungo. Ma insomma, molte cose. Occorrerebbe una riscrittura complessiva delle norme, in particolare delle norme processuali. Modificare sostanzialmente il sistema delle pene, riducendo al minimo il ricorso al carcere e privilegiando sanzioni alternative in maniera massiccia. Poi è necessario introdurre risorse diverse per il sistema, da spendere però in maniera razionale. Insomma più soldi ma con una migliore capacità di spenderli. E poi ci vorrebbe un epocale cambiamento di cultura da parte degli operatori del diritto (avvocati, magistrati, funzionari) che sono, indipendentemente dal fatto che si collochino a sinistra o a destra, tendenzialmente conservatori.

URBINOIR: Cambio totalmente argomento. In seguito alla tua incursione nel mondo dei fumetti, con la pubblicazione assieme a tuo fratello della graphic novel Cacciatori nelle tenebre (che vede come protagonista uno degli amici di Guerrieri, l’ispettore Tancredi), ho pensato che in fondo Guido Guerrieri ha un non so che di personaggio dei fumetti. A partire dal nome allitterante, che ricorda quelli di Dylan Dog, Nathan Never, Martin Mystere… In fondo Guerrieri è un idealista in un mondo tutt’altro che ideale. Il suo voler raddrizzare torti e scoprire misteri, l’invaghirsi delle sue clienti (o mogli o amiche di clienti) ne fa un po’ un personaggio a metà strada tra Tex Willer e Dylan Dog. Credi che la mia sia una lettura troppo azzardata del tuo personaggio?

CAROFIGLIO: No. Io non lo vivo così, ma non mi sembra un’interpretazione azzardata. È una chiave di lettura interessante. Effettivamente c’è una dimensione eroica in questo personaggio. Poi appunto uno la può leggere così. Non è una cosa che ho pensato e non so se la sottoscriverei, ma mi sembra un’ipotesi interessante. Io penso che la differenza fondamentale tra questo personaggio che ritorna e quello dei fumetti risieda nella sussistenza o meno della serialità. Secondo me in Guerrieri non c’è, mentre i personaggi dei fumetti inevitabilmente ce l’hanno e questo li porta poi, in qualche aspetto, a diventare stereotipati. E io credo che Guerrieri non lo sia. Però in quei connotati eroici, e anche un po’ ingenui, è probabile che effettivamente si possa convenire.

URBINOIR: Talvolta accade che i personaggi di un romanzo sfuggano al controllo del proprio autore e prendano un po’ il sopravvento. Per cui cominciano ad acquistare una volontà indipendente, a fare o a dire cose che l’autore, all’inizio, non aveva immaginato che facessero o dicessero. Ti è mai capitato? Se sì, per quali personaggi?

CAROFIGLIO: Bisogna stare attenti su questo tema. Non è che prendano propriamente il sopravvento. Si rischia di attribuire un’enfasi quasi mitica alla creazione narrativa. Però è ben vero che quando si comincia a scrivere si ha un’idea di qualche personaggio e poi in realtà il suo posto e la sua natura è diversa e uno se ne accorge scrivendo. Non è che prendano il sopravvento, uno se ne accorge e li racconta come in realtà dovrebbero essere coerentemente con la storia. Detto questo, sì mi è capitato, e diverse volte. Una di queste è stata con l’ultima raccolta di racconti che esce dopodomani in libreria. C’è il personaggio di una donna in un racconto, che si intitola “Il maestro di bastone”, la zia del protagonista e dell’io narrante Enrico. Era un puro personaggio di contorno, quasi una sagoma, una quinta dello spettacolo, invece mi sono accorto che era un personaggio che aveva da dire di più ed è diventato importantissimo nella storia.

URBINOIR: Hai fatto un riferimento al nuovo libro di racconti che sta per uscire in libreria e che non ha nulla a che vedere con Guerrieri. Viene naturale chiederti, dopo quattro libri (o, come hai detto tu a Urbino, un solo libro suddiviso in quattro macroepisodi) incentrati sulla figura di Guerrieri, quale sarà il futuro del tuo personaggio? Tornerai a scrivere ancora su di lui, oppure hai intenzione di esplorare nuovi cammini e nuovi personaggi?

CAROFIGLIO: Le due cose non si escludono. Adesso sto facendo altre cose, ho altri progetti. Però questo non significa che quando maturerà una nuova storia per questo personaggio non la racconterò. Però deve essere una storia necessaria, non un episodio di una serie.

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