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Intervista di Gianni Darconza a Giancarlo Carofiglio

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URBINOIR: Punto di partenza è una frase che ho letto sul tuo conto che affermava: “Gianrico Carofiglio è, senza dubbio, uno dei migliori autori italiani di romanzi neri” (Il Piccolo). Il noir è genere di moda, sia in Italia che all’estero, forse perché è romanzo sociale adatto a scavare dentro situazioni di disagio, violenza, corruzione istituzionale e politica, ma anche dentro la mente degli individui, rivelando le inquietudini della gente. Secondo te quanto c’è di vero in tutto questo? E, anche se so che a nessun autore piacciono le etichette, ti sembra che la serie di romanzi incentrati sull’avvocato Guerrieri rientri nel genere noir?

CAROFIGLIO: Io sono sempre stato d’accordo con quello che diceva Chesterton, l’autore di Padre Brown, e cioè che i romanzi si dividono essenzialmente in due categorie, quelli scritti bene e quelli scritti male. Già questa citazione credo che la dica lunga sulla mia idiosincrasia, poca passione per i generi. Detto questo, sono certamente delle etichette che possono aiutare a capire alcune cose e vanno maneggiate con cautela, intendo le etichette di genere, ed è vero quello che hai detto sul fatto che certamente il buon romanzo noir è uno strumento forse più affilato per capire certe contraddizioni della modernità. La questione però è un’altra e qui veniamo anche alle cose che scrivo. Ci sono romanzi che si prestano, a seconda di come li si guarda, ad essere classificati in una maniera o in un’altra o in un’altra ancora. Quindi non c’è dubbio che la serie (io non amo parlare di serie)… la sequenza di romanzi che ha come protagonista Guerrieri può essere ricondotta alla categoria del noir o addirittura, per quanto riguarda l’ultimo, della detective story. Però poi per me si tratta anche e soprattutto di altro, cioè lo schema riconducibile al genere per me è uno strumento narrativo piuttosto che un fine. Il fine è un altro, e cioè raccontare certe dinamiche psicologiche, e un certo sviluppo dei personaggi in una epoca data.

URBINOIR: Quindi l’aspetto psicologico come uno degli elementi più importanti del romanzo?

CAROFIGLIO: Per me è una questione fondamentale. Il racconto dei personaggi.

URBINOIR: Quando un genere diventa di moda, si comincia anche a produrre molta spazzatura, perché pur di accontentare il mercato editoriale, si tende a scrivere molto talvolta a scapito della qualità. Di che cosa ha bisogno il romanzo italiano oggi per evitare questo pericolo?

CAROFIGLIO: Io devo dire che non mi piace fare lezioni agli altri e quindi quello che dico va trattato con estrema cautela. Però la mia sensazione, pur non leggendo moltissimi romanzi italiani contemporanei, è che ci sia forse un eccesso di avviluppamento, diciamo, su piccole dinamiche private che fa conto di situazioni viste e riviste, senza una capacità di grande racconto romanzesco. Lo vedo piuttosto raramente questo. Quindi ci vorrebbe la capacità di sollevarsi un po’ e di guardare più dall’alto la materia che viene raccontata. Ci sono moduli narrativi, che poi ritroviamo sotto certi aspetti anche nel cinema, che danno una sensazione un po’ angusta.

URBINOIR: Da lettore dei tuoi romanzi ho avuto un’impressione particolare rispetto ai tuoi personaggi, e cioè la sensazione che ogni equilibrio raggiunto nella vita sia estremamente instabile, col rischio di sprofondare nel baratro della follia quotidiana. Questo è evidente in particolar modo nel Guerrieri di Testimone inconsapevole, ma non solo. E forse questo è uno degli aspetti più inquietanti dei tuoi libri che rimangono impressi nel lettore: la scoperta che il caos è la norma e l’ordine non è che una “perfezione provvisoria”.

CAROFIGLIO: La dialettica tra sanità e follia, fra ordine e caos, è fortemente presente in Il passato è una terra straniera, che è un romanzo senza Guerrieri, e, anche se non se ne sono accorti in molti, nel piccolo romanzo Né qui né altrove. Ciò detto, è vero che anche nei romanzi di Guerrieri c’è questa dialettica. Io non enfatizzerei eccessivamente il trionfo del caos. Io vedo piuttosto questo percorso di personaggi in bilico tra caos, che è quello che normalmente ci circonda, fino a quando non c’è l’azione umana, e soprattutto non c’è la parola e il racconto che mette ordine nel caos. Questo l’ho detto in modo esplicito fra l’altro in Ragionevoli dubbi. Ma come dicevo, il tema proprio della pazzia è trattato in maniera esplicita in Il passato è una terra straniera.

URBINOIR: Restando sul tema del racconto, cito a memoria parole tue: “Le storie sono tutto ciò che abbiamo”. Perché è così importante raccontare storie? È forse qualcosa che si sta perdendo nella società contemporanea, a causa dei ritmi frenetici che ci impone la vita?

CAROFIGLIO: Ma io non credo che si stia perdendo. Noi raccontiamo storie in tutti i momenti della nostra vita. La nostra esistenza è segnata dal racconto di storie e certamente il romanzo è la forma più alta del racconto. Le storie sono così importanti per quello che dicevo prima, perché mettono ordine nel caos.

URBINOIR: So bene che chiedere che cosa c’è di Carofiglio in Guido Guerrieri sarebbe una domanda scontata, a cui del resto hai già risposto in occasione della tua presentazione a Urbino. Per questo voglio ribaltare la domanda: in che cosa si discosta Guerrieri dal suo autore e in che cosa vorrebbe Carofiglio assomigliare di più al suo personaggio?

CAROFIGLIO: Alla prima parte della domanda non so cosa rispondere, che cosa c’è di mio che non c’è in Guerrieri? Non saprei proprio rispondere, perché implica una capacità di approfondimento introspettivo di cui non sono dotato. La seconda parte invece coglie un aspetto importante della questione del rapporto tra autore e personaggio che ritorna, perché dopo un poco il problema è proprio quello: quanto del personaggio comincia a riversarsi sull’autore e quando può succedere che l’autore stesso si possa chiedere in situazioni date che cosa farebbe lui. Il che accade effettivamente. Ed è un fenomeno piuttosto interessante. Forse più psichiatricamente che letterariamente. Però accade veramente.

URBINOIR: C’è una frase interessante de Il giovane Holden di Salinger, e cioè che i libri migliori sono quelli che quando uno ha finito di leggerli vorrebbe che l’autore fosse suo amico per potergli stringere la mano di persona e telefonargli ogni volta che lo desidera. Quali sono gli autori (non necessariamente contemporanei) che vorresti per amici? E perché?

CAROFIGLIO: Mah… Io avevo una grandissima infatuazione per esempio per un autore, che non è un autore di romanzi, ma uno scienziato, Konrad Lorenz, su cui poi si dissero anche cose non belle e io rimasi davvero male. Qualcuno parlò, e fu poi smentito, di cose sue…, su possibili suoi piccoli cedimenti, di razzismo… Io credo che questa cosa non sia mai stata accertata. Ma insomma, indipendentemente dal dato storico, io quando leggevo i libri di Konrad Lorenz, avevo tredici o quattordici anni e volevo fare lo scienziato e volevo occuparmi di animali, avrei voluto poter parlare con quel signore. Ho un ricordo molto vivido di questa sensazione. Poi c’è qualche altro autore che avrei voluto conoscere e sfortunatamente poi ho conosciuto ed è stato molto deludente.

URBINOIR: Puoi fare un esempio? Si può fare qualche nome?

CAROFIGLIO: No, non mi sembra elegante. C’è qualche autore importante che mi piace molto che ho conosciuto sfruttando l’opportunità che mi veniva dal fatto di aver scritto dei libri. E mi sono pentito di aver chiesto di conoscerlo. Può succedere. Anzi direi che forse è frequente che ci sia una differenza notevole tra quello che uno scrive e quello che uno è. In generale è sconsigliabile conoscere autori che ti sono piaciuti.

URBINOIR: C’è un episodio che mi ha colpito in modo particolare, ed è quando Guerrieri entra in un taxi e scopre sul sedile una pila di libri e si stupisce di trovarli proprio lì, in quel posto. Ne nasce uno scambio di opinioni tra lui e il tassista sulla letteratura. Al punto che quando giunge il momento di scendere dal taxi lo fa a malincuore. Dai tuoi romanzi viene fuori la tua grande passione per i libri, il cinema, la musica, la cultura in genere. Quanto è importante la letteratura in un paese come l’Italia in cui, stando alle statistiche, si pubblica sempre di più e si legge sempre di meno?

CAROFIGLIO: Beh… Quanto sono importanti? Sono fondamentali. Non riesco neanche a immaginare che cosa potrebbe essere, o potrebbe essere stata la mia vita senza i libri che peraltro ho cominciato a maneggiare e a leggere da quando ero molto piccolo. Entravo nelle librerie da ragazzino, già a dieci anni andavo a curiosare, a comprare libri. Per me il mondo senza libri è inimmaginabile. La lettura, non solo in Italia, non è una cosa che riguardi la maggioranza della popolazione. Certo in altri paesi si legge di più anche se poi sono dati che vanno disaggregati perché si leggono sì più libri ma molti sono di livello bassissimo. Ma certo, la situazione in altri paesi con indici di lettura più alti è migliore che in Italia. Peggio per loro. È una battuta naturalmente… Ma insomma è ovvio che la crescita da tutti i punti di vista, e anche da un punto di vista culturale, della popolazione è un percorso lento e accidentato. Però io non sono pessimista. A me piace pensare, piuttosto che a quelli che non leggono, che sono tanti, ai tanti, tantissimi che invece leggono. Con l’idea di appartenere a quella comunità che, io credo, si allargherà. E questo è confortante.

URBINOIR: Nei tuoi libri c’è una tecnica interessante che permette di misurare, attraverso l’arma dell’ironia, lo scarto tra il detto e il non detto. Tra ciò che uno pensa veramente e la frase di circostanza che impone il buon vivere sociale. Ho preso come esempio un brano tratto da Ad occhi chiusi, ma ce n’erano moltissimi altri. È quando Guerrieri e la suora discutono sull’Arte della guerra di Sun Tzu. La suora chiede: “Giusto. Hai letto quel libro?”. E Guerrieri pensa: “No, ho un manuale con tutte le citazioni utili per ogni circostanza. Questa l’ho presa dal capitolo: Come impressionare le suore maestre di arti marziali.” Poi in realtà risponde con un banale “sì”. Significa forse che l’individuo nella società è un ipocrita, che è diventato prigioniero delle convenzioni sociali o del suo ruolo?

CAROFIGLIO: Ma no, non lo è diventato. Le convenzioni sociali ci sono sempre state ed è bene che ci siano. Se dicessimo sempre quello che pensiamo la vita sarebbe un inferno. Però appunto lo scarto tra quello che pensiamo e quello che diciamo, e nella maggior parte dei casi diciamo giustamente in maniera un po’ ipocrita, è uno scarto divertente e mi permette di far vedere in controluce diversi moduli di pensiero. Non c’è un elemento di critica sociale in questa scelta stilistica, ma c’è una scelta di uso dell’ironia e dell’autoironia, che per me sono molto importanti quando si racconta un personaggio di quel tipo.

URBINOIR: Un altro degli aspetti interessanti dei tuoi romanzi è l’ambiguità. Dopo averli letti ho scoperto di provare simpatia per alcuni spacciatori, di ammirare una ex prostituta che gestisce un bar per omosessuali, di tifare per una donna che ha ucciso un uomo a colpi di arti marziali. Tutti sentimenti piuttosto inquietanti. Era l’effetto che volevi?

CAROFIGLIO: Direi di sì. (Sorridendo) Direi di sì. Perché l’idea del bianco e nero la trovo insopportabile. Sfortunatamente è più complicato.

URBINOIR: Restando sul tema dell’ambiguità, lo scrittore messicano Carlos Fuentes, in relazione al romanzo ispanoamericano, afferma che essa nasce da un contesto rivoluzionario. Nelle rivoluzioni i fuorilegge possono diventare eroi e gli uomini di legge possono diventare i cattivi. In quest’ottica ti senti un po’ rivoluzionario?

CAROFIGLIO: Non direi rivoluzionario… Direi che è un po’ enfatico definirmi così. Non c’è dubbio che qualsiasi arte, qualsiasi letteratura che non sia puro e banale intrattenimento, si fa carico della complessità e appunto dell’ambiguità del mondo non per riprodurla in maniera chiara ma per renderne conto nei suoi connotati di verità in quello che si scrive. Rivoluzione a parte, credo che senza ambiguità non c’è letteratura. Il che differenzia la narrativa commerciale dalla buona letteratura. E quella commerciale non mi interessa molto.

URBINOIR: In generale gli italiani (e io sono tra quelli) non nutrono una grande fiducia nella giustizia. La lentezza burocratica, i tanti cavilli legali, l’incertezza della pena, formule come “scadenza dei termini di custodia cautelare” sono avvertiti un po’ come un insulto per la gente comune. Trovo che questa sfiducia venga mitigata attraverso la lettura dei tuoi romanzi. E non perché ci mostrino che tutto funziona bene, ma perché mostrano che non tutto funziona male, che non tutti i funzionari o gli avvocati sono corrotti e che per valutare bene la complessità della questione bisogna vedere le cose da dentro, attraverso gli occhi di un avvocato.

CAROFIGLIO: Penso che sia una giusta chiave di lettura. Ci sono cose che vanno bene e cose che vanno male. Bisogna evitare l’enfasi retorica e qualche polemica su quelle che vanno male. Naturalmente io non scrivo questi romanzi per dire che le cose vanno bene, scrivo per fare altro. Come abbiamo detto prima, per raccontare lo sviluppo dei personaggi. Naturalmente il contesto, che è del tutto realistico, mostra quello che hai detto, è vero, e ciò mi fa piacere.

URBINOIR: Che cosa ne pensi della giustizia italiana? E che cosa dovrebbe cambiare?

CAROFIGLIO: Questo è un discorso molto lungo. Ma insomma, molte cose. Occorrerebbe una riscrittura complessiva delle norme, in particolare delle norme processuali. Modificare sostanzialmente il sistema delle pene, riducendo al minimo il ricorso al carcere e privilegiando sanzioni alternative in maniera massiccia. Poi è necessario introdurre risorse diverse per il sistema, da spendere però in maniera razionale. Insomma più soldi ma con una migliore capacità di spenderli. E poi ci vorrebbe un epocale cambiamento di cultura da parte degli operatori del diritto (avvocati, magistrati, funzionari) che sono, indipendentemente dal fatto che si collochino a sinistra o a destra, tendenzialmente conservatori.

URBINOIR: Cambio totalmente argomento. In seguito alla tua incursione nel mondo dei fumetti, con la pubblicazione assieme a tuo fratello della graphic novel Cacciatori nelle tenebre (che vede come protagonista uno degli amici di Guerrieri, l’ispettore Tancredi), ho pensato che in fondo Guido Guerrieri ha un non so che di personaggio dei fumetti. A partire dal nome allitterante, che ricorda quelli di Dylan Dog, Nathan Never, Martin Mystere… In fondo Guerrieri è un idealista in un mondo tutt’altro che ideale. Il suo voler raddrizzare torti e scoprire misteri, l’invaghirsi delle sue clienti (o mogli o amiche di clienti) ne fa un po’ un personaggio a metà strada tra Tex Willer e Dylan Dog. Credi che la mia sia una lettura troppo azzardata del tuo personaggio?

CAROFIGLIO: No. Io non lo vivo così, ma non mi sembra un’interpretazione azzardata. È una chiave di lettura interessante. Effettivamente c’è una dimensione eroica in questo personaggio. Poi appunto uno la può leggere così. Non è una cosa che ho pensato e non so se la sottoscriverei, ma mi sembra un’ipotesi interessante. Io penso che la differenza fondamentale tra questo personaggio che ritorna e quello dei fumetti risieda nella sussistenza o meno della serialità. Secondo me in Guerrieri non c’è, mentre i personaggi dei fumetti inevitabilmente ce l’hanno e questo li porta poi, in qualche aspetto, a diventare stereotipati. E io credo che Guerrieri non lo sia. Però in quei connotati eroici, e anche un po’ ingenui, è probabile che effettivamente si possa convenire.

URBINOIR: Talvolta accade che i personaggi di un romanzo sfuggano al controllo del proprio autore e prendano un po’ il sopravvento. Per cui cominciano ad acquistare una volontà indipendente, a fare o a dire cose che l’autore, all’inizio, non aveva immaginato che facessero o dicessero. Ti è mai capitato? Se sì, per quali personaggi?

CAROFIGLIO: Bisogna stare attenti su questo tema. Non è che prendano propriamente il sopravvento. Si rischia di attribuire un’enfasi quasi mitica alla creazione narrativa. Però è ben vero che quando si comincia a scrivere si ha un’idea di qualche personaggio e poi in realtà il suo posto e la sua natura è diversa e uno se ne accorge scrivendo. Non è che prendano il sopravvento, uno se ne accorge e li racconta come in realtà dovrebbero essere coerentemente con la storia. Detto questo, sì mi è capitato, e diverse volte. Una di queste è stata con l’ultima raccolta di racconti che esce dopodomani in libreria. C’è il personaggio di una donna in un racconto, che si intitola “Il maestro di bastone”, la zia del protagonista e dell’io narrante Enrico. Era un puro personaggio di contorno, quasi una sagoma, una quinta dello spettacolo, invece mi sono accorto che era un personaggio che aveva da dire di più ed è diventato importantissimo nella storia.

URBINOIR: Hai fatto un riferimento al nuovo libro di racconti che sta per uscire in libreria e che non ha nulla a che vedere con Guerrieri. Viene naturale chiederti, dopo quattro libri (o, come hai detto tu a Urbino, un solo libro suddiviso in quattro macroepisodi) incentrati sulla figura di Guerrieri, quale sarà il futuro del tuo personaggio? Tornerai a scrivere ancora su di lui, oppure hai intenzione di esplorare nuovi cammini e nuovi personaggi?

CAROFIGLIO: Le due cose non si escludono. Adesso sto facendo altre cose, ho altri progetti. Però questo non significa che quando maturerà una nuova storia per questo personaggio non la racconterò. Però deve essere una storia necessaria, non un episodio di una serie.

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Intervista a Gianrico Carofiglio a cura di Gianni D’Arconza

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URBINOIR: Punto di partenza è una frase che ho letto sul tuo conto che affermava: “Gianrico Carofiglio è, senza dubbio, uno dei migliori autori italiani di romanzi neri” (Il Piccolo). Il noir è genere di moda, sia in Italia che all’estero, forse perché è romanzo sociale adatto a scavare dentro situazioni di disagio, violenza, corruzione istituzionale e politica, ma anche dentro la mente degli individui, rivelando le inquietudini della gente. Secondo te quanto c’è di vero in tutto questo? E, anche se so che a nessun autore piacciono le etichette, ti sembra che la serie di romanzi incentrati sull’avvocato Guerrieri rientri nel genere noir?

 CAROFIGLIO: Io sono sempre stato d’accordo con quello che diceva Chesterton, l’autore di Padre Brown, e cioè che i romanzi si dividono essenzialmente in due categorie, quelli scritti bene e quelli scritti male. Già questa citazione credo che la dica lunga sulla mia idiosincrasia, poca passione per i generi. Detto questo, sono certamente delle etichette che possono aiutare a capire alcune cose e vanno maneggiate con cautela, intendo le etichette di genere, ed è vero quello che hai detto sul fatto che certamente il buon romanzo noir è uno strumento forse più affilato per capire certe contraddizioni della modernità. La questione però è un’altra e qui veniamo anche alle cose che scrivo. Ci sono romanzi che si prestano, a seconda di come li si guarda, ad essere classificati in una maniera o in un’altra o in un’altra ancora. Quindi non c’è dubbio che la serie (io non amo parlare di serie)… la sequenza di romanzi che ha come protagonista Guerrieri può essere ricondotta alla categoria del noir o addirittura, per quanto riguarda l’ultimo, della detective story. Però poi per me si tratta anche e soprattutto di altro, cioè lo schema riconducibile al genere per me è uno strumento narrativo piuttosto che un fine. Il fine è un altro, e cioè raccontare certe dinamiche psicologiche, e un certo sviluppo dei personaggi in una epoca data.

URBINOIR: Quindi l’aspetto psicologico come uno degli elementi più importanti del romanzo?

 CAROFIGLIO: Per me è una questione fondamentale. Il racconto dei personaggi.

URBINOIR: Quando un genere diventa di moda, si comincia anche a produrre molta spazzatura, perché pur di accontentare il mercato editoriale, si tende a scrivere molto talvolta a scapito della qualità. Di che cosa ha bisogno il romanzo italiano oggi per evitare questo pericolo?

 CAROFIGLIO: Io devo dire che non mi piace fare lezioni agli altri e quindi quello che dico va trattato con estrema cautela. Però la mia sensazione, pur non leggendo moltissimi romanzi italiani contemporanei, è che ci sia forse un eccesso di avviluppamento, diciamo, su piccole dinamiche private che fa conto di situazioni viste e riviste, senza una capacità di grande racconto romanzesco. Lo vedo piuttosto raramente questo. Quindi ci vorrebbe la capacità di sollevarsi un po’ e di guardare più dall’alto la materia che viene raccontata. Ci sono moduli narrativi, che poi ritroviamo sotto certi aspetti anche nel cinema, che danno una sensazione un po’ angusta.

URBINOIR: Da lettore dei tuoi romanzi ho avuto un’impressione particolare rispetto ai tuoi personaggi, e cioè la sensazione che ogni equilibrio raggiunto nella vita sia estremamente instabile, col rischio di sprofondare nel baratro della follia quotidiana. Questo è evidente in particolar modo nel Guerrieri di Testimone inconsapevole, ma non solo. E forse questo è uno degli aspetti più inquietanti dei tuoi libri che rimangono impressi nel lettore: la scoperta che il caos è la norma e l’ordine non è che una “perfezione provvisoria”.

 CAROFIGLIO: La dialettica tra sanità e follia, fra ordine e caos, è fortemente presente in Il passato è una terra straniera, che è un romanzo senza Guerrieri, e, anche se non se ne sono accorti in molti, nel piccolo romanzo Né qui né altrove. Ciò detto, è vero che anche nei romanzi di Guerrieri c’è questa dialettica. Io non enfatizzerei eccessivamente il trionfo del caos. Io vedo piuttosto questo percorso di personaggi in bilico tra caos, che è quello che normalmente ci circonda, fino a quando non c’è l’azione umana, e soprattutto non c’è la parola e il racconto che mette ordine nel caos. Questo l’ho detto in modo esplicito fra l’altro in Ragionevoli dubbi. Ma come dicevo, il tema proprio della pazzia è trattato in maniera esplicita in Il passato è una terra straniera.

URBINOIR: Restando sul tema del racconto, cito a memoria parole tue: “Le storie sono tutto ciò che abbiamo”. Perché è così importante raccontare storie? È forse qualcosa che si sta perdendo nella società contemporanea, a causa dei ritmi frenetici che ci impone la vita?

 CAROFIGLIO: Ma io non credo che si stia perdendo. Noi raccontiamo storie in tutti i momenti della nostra vita. La nostra esistenza è segnata dal racconto di storie e certamente il romanzo è la forma più alta del racconto. Le storie sono così importanti per quello che dicevo prima, perché mettono ordine nel caos.

URBINOIR: So bene che chiedere che cosa c’è di Carofiglio in Guido Guerrieri sarebbe una domanda scontata, a cui del resto hai già risposto in occasione della tua presentazione a Urbino. Per questo voglio ribaltare la domanda: in che cosa si discosta Guerrieri dal suo autore e in che cosa vorrebbe Carofiglio assomigliare di più al suo personaggio?

 CAROFIGLIO: Alla prima parte della domanda non so cosa rispondere, che cosa c’è di mio che non c’è in Guerrieri? Non saprei proprio rispondere, perché implica una capacità di approfondimento introspettivo di cui non sono dotato. La seconda parte invece coglie un aspetto importante della questione del rapporto tra autore e personaggio che ritorna, perché dopo un poco il problema è proprio quello: quanto del personaggio comincia a riversarsi sull’autore e quando può succedere che l’autore stesso si possa chiedere in situazioni date che cosa farebbe lui. Il che accade effettivamente. Ed è un fenomeno piuttosto interessante. Forse più psichiatricamente che letterariamente. Però accade veramente.

URBINOIR: C’è una frase interessante de Il giovane Holden di Salinger, e cioè che i libri migliori sono quelli che quando uno ha finito di leggerli vorrebbe che l’autore fosse suo amico per potergli stringere la mano di persona e telefonargli ogni volta che lo desidera. Quali sono gli autori (non necessariamente contemporanei) che vorresti per amici? E perché?

 CAROFIGLIO: Mah… Io avevo una grandissima infatuazione per esempio per un autore, che non è un autore di romanzi, ma uno scienziato, Konrad Lorenz, su cui poi si dissero anche cose non belle e io rimasi davvero male. Qualcuno parlò, e fu poi smentito, di cose sue…, su possibili suoi piccoli cedimenti, di razzismo… Io credo che questa cosa non sia mai stata accertata. Ma insomma, indipendentemente dal dato storico, io quando leggevo i libri di Konrad Lorenz, avevo tredici o quattordici anni e volevo fare lo scienziato e volevo occuparmi di animali, avrei voluto poter parlare con quel signore. Ho un ricordo molto vivido di questa sensazione. Poi c’è qualche altro autore che avrei voluto conoscere e sfortunatamente poi ho conosciuto ed è stato molto deludente.

URBINOIR: Puoi fare un esempio? Si può fare qualche nome?

 CAROFIGLIO: No, non mi sembra elegante. C’è qualche autore importante che mi piace molto che ho conosciuto sfruttando l’opportunità che mi veniva dal fatto di aver scritto dei libri. E mi sono pentito di aver chiesto di conoscerlo. Può succedere. Anzi direi che forse è frequente che ci sia una differenza notevole tra quello che uno scrive e quello che uno è. In generale è sconsigliabile conoscere autori che ti sono piaciuti.

URBINOIR: C’è un episodio che mi ha colpito in modo particolare, ed è quando Guerrieri entra in un taxi e scopre sul sedile una pila di libri e si stupisce di trovarli proprio lì, in quel posto. Ne nasce uno scambio di opinioni tra lui e il tassista sulla letteratura. Al punto che quando giunge il momento di scendere dal taxi lo fa a malincuore. Dai tuoi romanzi viene fuori la tua grande passione per i libri, il cinema, la musica, la cultura in genere. Quanto è importante la letteratura in un paese come l’Italia in cui, stando alle statistiche, si pubblica sempre di più e si legge sempre di meno?

 CAROFIGLIO: Beh… Quanto sono importanti? Sono fondamentali. Non riesco neanche a immaginare che cosa potrebbe essere, o potrebbe essere stata la mia vita senza i libri che peraltro ho cominciato a maneggiare e a leggere da quando ero molto piccolo. Entravo nelle librerie da ragazzino, già a dieci anni andavo a curiosare, a comprare libri. Per me il mondo senza libri è inimmaginabile. La lettura, non solo in Italia, non è una cosa che riguardi la maggioranza della popolazione. Certo in altri paesi si legge di più anche se poi sono dati che vanno disaggregati perché si leggono sì più libri ma molti sono di livello bassissimo. Ma certo, la situazione in altri paesi con indici di lettura più alti è migliore che in Italia. Peggio per loro. È una battuta naturalmente… Ma insomma è ovvio che la crescita da tutti i punti di vista, e anche da un punto di vista culturale, della popolazione è un percorso lento e accidentato. Però io non sono pessimista. A me piace pensare, piuttosto che a quelli che non leggono, che sono tanti, ai tanti, tantissimi che invece leggono. Con l’idea di appartenere a quella comunità che, io credo, si allargherà. E questo è confortante.

URBINOIR: Nei tuoi libri c’è una tecnica interessante che permette di misurare, attraverso l’arma dell’ironia, lo scarto tra il detto e il non detto. Tra ciò che uno pensa veramente e la frase di circostanza che impone il buon vivere sociale. Ho preso come esempio un brano tratto da Ad occhi chiusi, ma ce n’erano moltissimi altri. È quando Guerrieri e la suora discutono sull’Arte della guerra di Sun Tzu. La suora chiede: “Giusto. Hai letto quel libro?”. E Guerrieri pensa: “No, ho un manuale con tutte le citazioni utili per ogni circostanza. Questa l’ho presa dal capitolo: Come impressionare le suore maestre di arti marziali.” Poi in realtà risponde con un banale “sì”. Significa forse che l’individuo nella società è un ipocrita, che è diventato prigioniero delle convenzioni sociali o del suo ruolo?

 CAROFIGLIO: Ma no, non lo è diventato. Le convenzioni sociali ci sono sempre state ed è bene che ci siano. Se dicessimo sempre quello che pensiamo la vita sarebbe un inferno. Però appunto lo scarto tra quello che pensiamo e quello che diciamo, e nella maggior parte dei casi diciamo giustamente in maniera un po’ ipocrita, è uno scarto divertente e mi permette di far vedere in controluce diversi moduli di pensiero. Non c’è un elemento di critica sociale in questa scelta stilistica, ma c’è una scelta di uso dell’ironia e dell’autoironia, che per me sono molto importanti quando si racconta un personaggio di quel tipo.

URBINOIR: Un altro degli aspetti interessanti dei tuoi romanzi è l’ambiguità. Dopo averli letti ho scoperto di provare simpatia per alcuni spacciatori, di ammirare una ex prostituta che gestisce un bar per omosessuali, di tifare per una donna che ha ucciso un uomo a colpi di arti marziali. Tutti sentimenti piuttosto inquietanti. Era l’effetto che volevi?

 CAROFIGLIO: Direi di sì. (Sorridendo) Direi di sì. Perché l’idea del bianco e nero la trovo insopportabile. Sfortunatamente è più complicato.

URBINOIR: Restando sul tema dell’ambiguità, lo scrittore messicano Carlos Fuentes, in relazione al romanzo ispanoamericano, afferma che essa nasce da un contesto rivoluzionario. Nelle rivoluzioni i fuorilegge possono diventare eroi e gli uomini di legge possono diventare i cattivi. In quest’ottica ti senti un po’ rivoluzionario?

 CAROFIGLIO: Non direi rivoluzionario… Direi che è un po’ enfatico definirmi così. Non c’è dubbio che qualsiasi arte, qualsiasi letteratura che non sia puro e banale intrattenimento, si fa carico della complessità e appunto dell’ambiguità del mondo non per riprodurla in maniera chiara ma per renderne conto nei suoi connotati di verità in quello che si scrive. Rivoluzione a parte, credo che senza ambiguità non c’è letteratura. Il che differenzia la narrativa commerciale dalla buona letteratura. E quella commerciale non mi interessa molto.

URBINOIR: In generale gli italiani (e io sono tra quelli) non nutrono una grande fiducia nella giustizia. La lentezza burocratica, i tanti cavilli legali, l’incertezza della pena, formule come “scadenza dei termini di custodia cautelare” sono avvertiti un po’ come un insulto per la gente comune. Trovo che questa sfiducia venga mitigata attraverso la lettura dei tuoi romanzi. E non perché ci mostrino che tutto funziona bene, ma perché mostrano che non tutto funziona male, che non tutti i funzionari o gli avvocati sono corrotti e che per valutare bene la complessità della questione bisogna vedere le cose da dentro, attraverso gli occhi di un avvocato.

 CAROFIGLIO: Penso che sia una giusta chiave di lettura. Ci sono cose che vanno bene e cose che vanno male. Bisogna evitare l’enfasi retorica e qualche polemica su quelle che vanno male. Naturalmente io non scrivo questi romanzi per dire che le cose vanno bene, scrivo per fare altro. Come abbiamo detto prima, per raccontare lo sviluppo dei personaggi. Naturalmente il contesto, che è del tutto realistico, mostra quello che hai detto, è vero, e ciò mi fa piacere.

URBINOIR: Che cosa ne pensi della giustizia italiana? E che cosa dovrebbe cambiare?

 CAROFIGLIO: Questo è un discorso molto lungo. Ma insomma, molte cose. Occorrerebbe una riscrittura complessiva delle norme, in particolare delle norme processuali. Modificare sostanzialmente il sistema delle pene, riducendo al minimo il ricorso al carcere e privilegiando sanzioni alternative in maniera massiccia. Poi è necessario introdurre risorse diverse per il sistema, da spendere però in maniera razionale. Insomma più soldi ma con una migliore capacità di spenderli. E poi ci vorrebbe un epocale cambiamento di cultura da parte degli operatori del diritto (avvocati, magistrati, funzionari) che sono, indipendentemente dal fatto che si collochino a sinistra o a destra, tendenzialmente conservatori.

URBINOIR: Cambio totalmente argomento. In seguito alla tua incursione nel mondo dei fumetti, con la pubblicazione assieme a tuo fratello della graphic novel Cacciatori nelle tenebre (che vede come protagonista uno degli amici di Guerrieri, l’ispettore Tancredi), ho pensato che in fondo Guido Guerrieri ha un non so che di personaggio dei fumetti. A partire dal nome allitterante, che ricorda quelli di Dylan Dog, Nathan Never, Martin Mystere… In fondo Guerrieri è un idealista in un mondo tutt’altro che ideale. Il suo voler raddrizzare torti e scoprire misteri, l’invaghirsi delle sue clienti (o mogli o amiche di clienti) ne fa un po’ un personaggio a metà strada tra Tex Willer e Dylan Dog. Credi che la mia sia una lettura troppo azzardata del tuo personaggio?

 CAROFIGLIO: No. Io non lo vivo così, ma non mi sembra un’interpretazione azzardata. È una chiave di lettura interessante. Effettivamente c’è una dimensione eroica in questo personaggio. Poi appunto uno la può leggere così. Non è una cosa che ho pensato e non so se la sottoscriverei, ma mi sembra un’ipotesi interessante. Io penso che la differenza fondamentale tra questo personaggio che ritorna e quello dei fumetti risieda nella sussistenza o meno della serialità. Secondo me in Guerrieri non c’è, mentre i personaggi dei fumetti inevitabilmente ce l’hanno e questo li porta poi, in qualche aspetto, a diventare stereotipati. E io credo che Guerrieri non lo sia. Però in quei connotati eroici, e anche un po’ ingenui, è probabile che effettivamente si possa convenire.

URBINOIR: Talvolta accade che i personaggi di un romanzo sfuggano al controllo del proprio autore e prendano un po’ il sopravvento. Per cui cominciano ad acquistare una volontà indipendente, a fare o a dire cose che l’autore, all’inizio, non aveva immaginato che facessero o dicessero. Ti è mai capitato? Se sì, per quali personaggi?

 CAROFIGLIO: Bisogna stare attenti su questo tema. Non è che prendano propriamente il sopravvento. Si rischia di attribuire un’enfasi quasi mitica alla creazione narrativa. Però è ben vero che quando si comincia a scrivere si ha un’idea di qualche personaggio e poi in realtà il suo posto e la sua natura è diversa e uno se ne accorge scrivendo. Non è che prendano il sopravvento, uno se ne accorge e li racconta come in realtà dovrebbero essere coerentemente con la storia. Detto questo, sì mi è capitato, e diverse volte. Una di queste è stata con l’ultima raccolta di racconti che esce dopodomani in libreria. C’è il personaggio di una donna in un racconto, che si intitola “Il maestro di bastone”, la zia del protagonista e dell’io narrante Enrico. Era un puro personaggio di contorno, quasi una sagoma, una quinta dello spettacolo, invece mi sono accorto che era un personaggio che aveva da dire di più ed è diventato importantissimo nella storia.

URBINOIR: Hai fatto un riferimento al nuovo libro di racconti che sta per uscire in libreria e che non ha nulla a che vedere con Guerrieri. Viene naturale chiederti, dopo quattro libri (o, come hai detto tu a Urbino, un solo libro suddiviso in quattro macroepisodi) incentrati sulla figura di Guerrieri, quale sarà il futuro del tuo personaggio? Tornerai a scrivere ancora su di lui, oppure hai intenzione di esplorare nuovi cammini e nuovi personaggi?

 CAROFIGLIO: Le due cose non si escludono. Adesso sto facendo altre cose, ho altri progetti. Però questo non significa che quando maturerà una nuova storia per questo personaggio non la racconterò. Però deve essere una storia necessaria, non un episodio di una serie.

 

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Cuore di carta di Federica Franceschelli

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CUORE DI CARTA

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Mi sveglio e le palpebre sono appiccicaticce e piene di grumi neri.
Resto immobile qualche istante cercando di aprirle ma faccio fatica e rinuncio.
Resto immobile qualche istante, sperando che anche il mondo faccia lo stesso. Ma l’orologio col suo ticchettio del cazzo mi ricorda che tutto si muove e sono io l’unica cosa ad essere ferma. Afferro il cuscino, lo porto tra le braccia e lo stringo con forza. Allungo una mano per cercare le coperte raggomitolate in una palla sul fondo del letto. Le trovo e le distendo alla meglio, tirandole su fino al naso perché sento freddo. Piego le gambe e porto le ginocchia contro il petto, cercando di ridurmi a una piccola palla.
Lo facevo fin da bambina, forse per il freddo o forse per sentirmi sicura, per sentirmi protetta.
Resto in questa posizione dolce e rassicurante per tanto, tantissimo tempo. Perdo il senso della realtà.

Lo riacquisto nel bagno, piegata in due sul lavandino. L’acqua scorre forte e sbatte violentemente sul fondo bianco. Gli schizzi gelidi mi graffiano il viso e tremo dal freddo. Fa così tanto freddo che mi accorgo di essere congelata e di non riuscire a muovermi. Stringo i denti perché so che prima o poi passerà. Allungo una mano violacea fino al rubinetto e lo giro bloccando quel perfido getto gelato. Mi accascio lentamente a terra e mi trascino per qualche metro cercando di raggiungere la vasca. Apro il rubinetto dell’acqua calda e quando il livello raggiunge circa metà ci scivolo dentro, con ancora mutande e reggiseno addosso. È bollente e grido, la pelle diventa rossa, brucia, ma sto meglio. Chiudo gli occhi e la bocca e mi dondolo avanti e indietro, nuovamente raggomitolata su me stessa. Aspetto solo che il dolore finisca e i sensi mi abbandonino.
È così bello quando tutto diventa nero.
?

Guardo fuori dalla finestra e tutto è perfettamente candido. Niente è fuori posto: i rami degli alberi spogli graffiano il cielo, l’erba è ghiacciata e scricchiola sotto i piedi dei bambini. Il cielo è grigio, triste ma bellissimo. Nevica. La temperatura è scesa ancora ma il paesaggio è come quelli giocattolo. Sopporta stoicamente il freddo. E io lo odio. Lo detesto, mi mette addosso una tristezza infinita. È come essere dentro una di quelle sfere che la gente compra per natale, quelle che le giri e scende la neve, dal paesaggio schematico e organizzato in maniera perfetta: gli alberi, le case, il pupazzo di neve; e con qualche euro in più anche la famiglia felice dentro al caldo e il bambino che pattina sul vialetto ghiacciato. Sono riproduzioni così perfette. Guardo fuori dalla finestra e mi sento rinchiusa in una di quelle sfere. Mi sale la nausea e lo stomaco si stringe. Mi sento soffocare.

Gli addobbi natalizi sono chiusi dentro scatoloni e mi fissano da un angolo del salotto. Io ricambio lo sguardo con superiorità. L’albero è finto e chiuso nel cellophane, lo osservo dall’alto ghignando soddisfatta, mi sento libera al confronto. Lo sguardo scivola di nuovo fuori dalla finestra. Vedo la neve, il paesaggio perfetto e ho un’altra fitta allo stomaco. Gli occhi mi bruciano e sento le lacrime salire; non sono libera. Mi avvicino all’albero, lo prendo a calci e le lacrime scendono. Apro le scatole e tiro fuori palline dorate, stelle rosse e bellissimi angeli dipinti a mano. Li butto per terra, li lancio per tutto il salotto strillando. Mi muovo veloce per casa cercando il presepe. Prendo le statuine e le lancio a terra, rido guardandole andare in mille pezzi. Prendo il piccolo Gesù dalla culla e lo lancio dalla finestra. Lo seguo con lo sguardo mentre sfreccia veloce tra i fiocchi di neve fino a cadere con un tonfo sordo in tutto quel bianco. Ne spunta fuori solo la testa, continua a fissarmi con sguardo angelico.
Odio il natale.

[…]

Federica Franceschelli è nata a Bologna nel 1989 e vive a Roma dove studia Scienze della Formazione. Ha vinto due edizioni del concorso letterario.
Questo è l’incipit di un racconto inedito.

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Beattrice Noir, Poesie

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1
Mi espando come capillari
gonfi,
in un mondo di sonnambuli sensi.

E perdo la battaglia
della vita contro il dio del labirinto
il mio sangue è
il filo di Arianna ­

Vago ancora
in cerca del mio girone,
chiedendomi ancora
se c’è poi
un posto abbastanza
osceno
da potermici nascondere
ricurva
come un verme codardo.

2
Febbricitante
nella tua voluttà
danzi su passi argentati,
lambita dai sette veli.

Sul tuo volto lascivo
giace fredda,
la luna.

Nessuno osa
guardarti.

Ferita
da quella bellezza d’avorio,
sanguinante d’amore,
chiedi la testa
di colui che ti ha rifiutata.

E la promessa è mantenuta.

Reggendo il tuo trofeo
finalmente baci la bocca spenta,
saziando la sete scarlatta
della tua folle passione.

Salomè

3
Il mio inesauribile amore
per le cose torbide
mi ha portato a te, come
l’olfatto di un segugio.

Spettro cadaverico
latitante e sfuggente nell’ombra,
ti aggiri per i corridoi sprofondati
della mia testa.

Soltanto un mostro potrebbe amarti e infatti

mi è ora ben noto chi io sia.

Continuo a desiderarti,
celebrarti, come fossi una
reliquia conservarti,

in quest’urna purpurea
pulsante nel petto.

4
Fantasmi hanno occupato
la mia mente devastandola
spodestandola.

Streghe segreti scrigni,

la mia psiche è un sacrilegio
un aborto
una menzogna.

Sussurri scricchiolii strade
perse e perverse.

Sono folle sono
folle
ho perduto
le mie spoglie.

Incubata nella tomba
ti aspetto,
dolce sanguinaria.

La tua falce sul cuore.

5
E la metamorfosi
sta avendo luogo.

Di nascosto mi infilo nel buio,
graffiando il tuo corpo.

Violando la Legge,

questa mia follia
ha solo avuto la giusta vendetta
sulla mente.

Dunque io, rea di una colpa così
dannatamente dolce,
sconto ora la pena.

Perché, giacendo in segreto su di te,
ho osato amarti ogni notte,
mia ignara Regina.

Divenendo il tuo sonno,
sono in te solo quando dormi.

Divenendo il tuo sonno,
mi uccidi a ogni tuo risveglio.

Beattrice Noir (pseudonimo di Beatrice Nori) è una giovane attrice, studentessa e autrice di poesie.
Ha ricevuto il Premio Liceo Ginnasio A. Caro di Fermo, 2007-2008 e 2008-2009.

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POSTDEMOCRAZIA di Tiziano Mancini

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POSTDEMOCRAZIA
di Tiziano Mancini

L’articolo di un intellettuale pose il seme. Ne seguirono alcuni editoriali e i contraddittori degli opinionisti, poi il dibattito approdò in tv, rimbalzando dalle pieghe di un talk show a un’inchiesta giornalistica, finché alla fine divenne la prima notizia di tutti i tg: i migliori leader erano tutti morti. Tra tutti i politici, ma anche tra i manager e i capitani d’industria, sindacalisti e giornalisti, intellettuali e scienziati, leader religiosi e filosofi, a nessuno mancava di avere un predecessore ormai defunto che non fosse stato più capace, più efficiente, più carismatico di lui. Ci si giustificò constatando che nella Storia c’era un’enorme maggioranza di morti rispetto ai vivi, ma l’affermarsi del concetto fece sì che si addivenne alla decisione finale: dare il voto anche ai morti. Fu una scelta sofferta e discussa, ma il degrado della civiltà umana era tale che il collasso era ormai imminente, miliardi di esseri umani erano in fuga dalle loro isole ormai sommerse dalle acque, dalle terre un tempo floride ridotte a deserti invivibili. Le città esplodevano negli intasamenti del traffico e soffocavano dentro nere nubi di gas asfissianti. Le cloache ospitavano masse di diseredati che si cibavano di escrementi: mutazioni genetiche legate all’istinto di sopravvivenza consentivano anche questo, ma per quanto tempo ancora non era dato di sapere. In un contesto simile, i morti, che erano la stragrande maggioranza degli elettori, ebbero gioco facile nell’imporre i propri modelli.
Nei supermercati i cibi un tempo più desiderati erano diventati sgraditi e restavano sui banchi anche a prezzi stracciati. Il cibo che un tempo era riservato agli amici a quattro zampe andava a ruba e costava sempre di più. I negozianti diffondevano miasmi di animale decomposto nei reparti della carne e degli insaccati per renderli più appetitosi: appena i vermi facevano capolino quella nuova clientela si accalcava all’acquisto sconsiderato dai prezzi senza più controllo. Il cibo tuttavia non aveva il tempo per avariarsi, per cui lo si comprava ancora fresco per poterlo lasciare nei frigoriferi spenti, nelle terrazze assolate, nelle cantine malsane. Mosche e penticane erano i nuovi animali domestici, i nuovi fidati padroni delle cucce e dei cestini imbottiti.
Tutto questo non poteva che favorire l’ascesa di un leader che riassumesse in sé tutte le caratteristiche di questa putrescenza globale. C’era solo un problema. Silvio era ancora vivo. Nessun cadavere, per quanto repellente, avrebbe avuto lo stomaco di votarlo, a meno che non fosse stato finalmente una carogna vera. Quando un sondaggio glielo confermò, senza pensarci due volte, decise di uccidersi. Sarebbe stato nuovamente il leader della maggioranza, di nuovo in sella, e stavolta per sempre, per l’eternità.
Così fece. E il progresso continuò.

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IL TUNNEL di Tiziano Mancini

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IL TUNNEL
di Tiziano Mancini

Non sto qui a tediarvi con le ragioni che mi hanno portato a prendere la decisione di uccidermi, tanto non sarete voi a farmela cambiare, anche perché, sapendole, non fareste che darmi ragione. Il fatto è che ora sono al volante, in cerca di un muro contro cui schiantarmi. Ecco, potreste indicarmene uno, piuttosto. Ma la Panda, accidenti, per essere davvero sicuro la devi lanciare.
Prendo la Superstrada.
90…100…120. Molto bene.
E adesso? Non c’è un muro, solo guard-rail, e i frontali sono al di là degli oleandri. Ecco la galleria. Già, oltre il tunnel c’è un bel muro spartitraffico. Schiaccio tutta la rabbia sul pedale, e mi lancio nel buio. Rivedrò per un attimo la luce, l’ultima luce della vita, poi la fine. Poche centinaia di metri.
La luce. Dove?
Davvero gli ultimi attimi sono interminabili. Pensare di avere solo un minuto di vita è come quando a vent’anni hai la vita davanti. Il resto della vita è sempre una vita intera. Certe scadenze sono come donne civettuole, si negano proprio quando le vedi più vicine. Così la morte dilata all’infinito l’ultimo istante. Non si muore. Si resta là, sulla spiaggia, ad aspettare di prendere il mare. Nulla accade, e si attende che tutto accada. Tira su l’ancora, allora, affronta la tempesta e torna, se puoi, poi raccontami com’è fatto l’oceano. Solo allora sarò disposto ad ascoltarti, ché non conosce il mare chi resta nel porto.
E’ lungo, questo tunnel, però.
Pareva fosse più corto. La Panda vibra in modo impressionante e i pensieri, già convulsi, si mescolano al rumore delle lamiere. Anche l’auto presente la morte. Già, anche lei morirà. Il lamento di metallo. Non ci sarà carrozziere capace di salvarla, la cavallina storna, la camera verde. Ho perso la sintassi, s’è gettata da un finestrino, la consecutio temporum dall’altro. Lasciatemi finalmente sconvolgere i ritmi della mia eloquenza: nessuno è più costretto a comprendermi, ed io so tutto quel che mi dico. La festa comincia e sono l’unico invitato, privilegio, smania d’irregolarità, ma presto tornerò nei ranghi, è solo una vacanza mentale. Sfogati pure: manca pochissimo ormai.
Ma quando arriva ‘sto cazzo di muro, quant’è lungo ‘sto cazzo di tunnel?
La semicurva è finita. Rettilineo nel buio. Non vedo la luce dell’uscita. In pieno giorno. Almeno un barlume. Guardo lo specchietto. Buio anche alle spalle. L’avrò fatta mille volte, ‘sta maledetta galleria, ogni volta dicevo “perché cazzo avrò acceso i fari, ch’è già finita?”, e adesso… Proseguo. Passa mezz’ora, mezz’ora! La macchina continua ad urlare, viaggiando verso lo schianto. Non ho mai sollevato il piede dal pedale.
Un’ora.
Basta.
Fermo la macchina. La ventola pare un aereo in picchiata. Scendo. Strada asfaltata, muro di cemento. Lo tocco: normale, normalissimo. Avrò sbagliato strada. Sarà una galleria nuova.
Riparto.
Dall’altra corsia non viene nessuno. Altra mezz’ora di guida.
Basta.
Faccio inversione. Se anche faccio un frontale, tanto meglio. Altre due ore di inutile guida. Stremato, fine della benzina. La macchina si ferma, lei salva.
Scendo. Vedo la mia figura che si inoltra nel profondo, in cerca di un impatto che non trova. Resto a guardarla così, non posso farne a meno.
Un’ombra nel buio, che si allontana, ma non scompare.

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Ypsilon noir di Alessandra Calanchi e Marco Monari

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YPSILON NOIR
di Alessandra Calanchi e Marco Monari
Acquistai la mia Ypsilon nel lontano 2001. Lo ricordo perché fu l’anno in cui crollarono le Twin Towers a New York – nessun collegamento, per carità: ma è una data che non mi è possibile dimenticare. L’avevo acquistata solo da pochi giorni, e profumava ancora di automobile nuova. Quell’odore particolare che non sai se ti piace o no – capite, vero? Un odore che non si dimentica. Ero in auto quando, accendendo l’autoradio su una frequenza a caso, venni a sapere della tragedia. Non l’imparai, come tanti altri, dalla famosa sequenza dei crolli gemelli, visti in ripetizione infinita nel piccolo schermo della TV. No. Lo appresi dalla radio della mia Ypsilon, quindi il dramma che si consumava laggiù mi sorprese mescolandosi all’odore della mia automobile nuova di zecca. Tutto qui.
Nei primi mesi, la mia piccolina mi stupì con la sua manovrabilità, con i freni ben misurati, con la frizione perfetta, con i pedali morbidi e con la bella carrozzeria nera tirata a lucido. Era un’automobile piccina per un uomo della mia stazza, me ne rendevo ben conto; un’auto più adatta a una studentessa, o a una giovane impiegata, che a un cinquantenne. Eppure, per girare in città la mia auto era insostituibile: rapida, sinuosa, facile da parcheggiare, graziosa, si rivelò una compagna silenziosa e fedele, instancabile e affidabile.
Non ci crederete: arrivai alla soglia dei 100.000 km senza quasi accorgermene. La tenevo in garage, s’intende, e la portavo regolarmente dal mio meccanico di fiducia; la mia Ypsilon non aveva un graffio, e spesso visitavo l’autolavaggio per offrirle un po’ di sollievo dall’arsura dell’estate, o al contrario, d’inverno, per darle una ripulita dopo una giornata di nevischio misto a smog.
Accadde poi che dovetti recarmi per qualche giorno all’estero per lavoro. Era per me una novità, un’anomalia – sono un uomo che ama la sua routine – eppure accettai la proposta che mi fece il capo senza esitazione. Da anni non mi spostavo dalla mia città, se non per brevi viaggi sul territorio nazionale, e in quei casi avevo sempre utilizzato la mia automobile. E ammetto che l’idea di un cambiamento, sebbene per pochi giorni, mi attirava. Ero pronto a imbarcarmi su un aereo, cosa che non mi accadeva da oltre vent’anni, e così feci senza pormi troppi problemi.
Restai all’estero – si trattava della Spagna – per pochi giorni; lavorai, sì, ma mi dedicai anche a visitare musei e a passeggiare per strade sconosciute e affascinanti. Tornai infine quasi a malincuore, ripromettendomi tuttavia che avrei cercato nuove occasioni per ripetere questa piacevole esperienza.
Camminavo leggero, portando un piccolo bagaglio a mano e un trolley che risuonava nel silenzio confortevole del garage, quando mi accorsi già da una certa distanza che la mia automobile, parcheggiata nel box dove l’avevo lasciata, aveva una portiera visibilmente danneggiata. Avvicinandomi di più mi accorsi che tutti i vetri erano i frantumi: i sedili interni erano pieni di frammenti piccoli e taglienti, e perfino gli specchietti retrovisori erano stati divelti. Più che irritato, ero stupito dalla rabbia che aveva evidentemente animato la mano di chi aveva deciso di compiere quel massacro. Com’era possibile? E perché solo la mia auto, fra tante, era stata penalizzata da quell’ira diabolica? Carezzai lievemente un sedile, poi ritrassi subito la mano già sanguinante. Non era possibile entrarci; guidarla in quelle condizioni, poi, era fuori questione. Telefonai dunque all’assistenza e mi preparai alla lunga serie di seccature che mi aspettava (pagare il carro attrezzi, telefonare all’assicurazione, parlare con il carrozziere, fare la denuncia ai carabinieri, ecc.), e che mi tennero effettivamente impegnato nelle giornate successive.
Finalmente, riebbi indietro la mia cara Ypsilon. Era bella, pulita, nera e sorridente: insomma, era tornata come nuova – anche se talvolta, devo confessarlo, dalle recondite pieghe dei sedili grigio perla sarebbero per lungo tempo continuato a spuntare come per incanto infinitesime schegge di vetro che mi si conficcavano in una mano, o in un fianco; non mi facevano troppo male, ma mi ricordavano dolorosamente l’accaduto, quasi che non dovessi mai dimenticarmene.
Nel frattempo, arrivai alla soglia dei 130.000 km. Cominciai a pensare che forse era venuto il momento di cambiare auto. Ma non ero sicuro. Volevo davvero una nuova utilitaria da città? O piuttosto era venuto, al culmine della mia pur modesta carriera, il momento di concedermi un’automobile più potente? E poi: volevo un’auto nuova o un’auto usata? Mentre consideravo le varie possibilità, mi accadde di trascorrere un fine settimana con amici, in montagna. Andammo via in pullman: era inverno, c’era una bella neve e riuscimmo a sciare molte ore con grande soddisfazione, come ai vecchi tempi. Tornai stanco, abbronzato e felice. Un’unica piccola preoccupazione riguardava la mia auto. Per questo, appena arrivato, mi guardai intorno nel piazzale: la mia auto era lì, bella e fedele. Nessun danno. Che sollievo.
Mi attardai dunque a salutare gli amici, a raccontare gli ultimi aneddoti, a scherzare e salutare. Li vidi ripartire tutti. Non avevo fretta: era già l’una di notte, ma l’indomani era domenica, potevo prendermela con calma. Entrai in auto sorridendo, pronto ad accendere il motore e a ritrovare il confortevole tepore della mia Ypsilon. Ma la chiavetta si mosse a vuoto. Nessun rumore. Nessuna luce sul cruscotto. Silenzio.
Naturalmente, la batteria si era scaricata mentre ero via. Accidenti! Pensai. Eppure, mi sembrava di averla fatta sostituire non più di due mesi prima. Possibile che mi sbagliassi?… Ma era inutile, anzi era dannoso, perdere tempo. Provai subito a chiamare gli amici sui vari cellulari: niente. Del resto, avevamo scherzato fino a poco prima su quelli che tengono i cellulari sempre accesi, specie di notte. Il fiato iniziava ad appannare i vetri. Cazzo, la temperatura era abbondantemente sotto lo zero. Cercai il numero dell’assistenza: l’avevo sempre tenuto fra le pagine del libretto di circolazione. Eppure, niente. Non c’era. Sconsolato, ripresi in mano il cellulare per tentare una connessione a internet e trovare qualche numero per l’emergenza. Ma il telefono si spense nel medesimo istante in cui lo toccai. Batterie scariche. Cazzo. E il caricabatteria da auto? Ero sicuro di averlo messo da qualche parte. Ma dove? E comunque a che mi sarebbe servito, idiota, visto che il motorino d’avviamento non funzionava?
Potete bene immaginare cosa feci: m’incamminai a piedi verso casa. Lasciai valigia, sacca e sci in auto (gli sci sul tettuccio, naturalmente) – e iniziai a camminare. E camminai. Camminai. Camminai fin quasi a non sentire più mani e piedi. Arrivato a casa, trovai il numero; telefonai; la macchina fu recuperata. Gli sci no – in meno di tre ore erano stati divelti dal portapacchi, per di più con un attrezzo che mi aveva distrutto mezzo tettuccio, segnato la portiera e spaccato il vetro posteriore. Ma ero a casa.
La settimana scorsa ho preso la solenne decisione. Ho visto l’automobile che cercavo: un bel Freelander verde scuro, massiccio, elegante, adatto a me. Sono entrato nella concessionaria e l’ho acquistato. E’ stato un colpo di fulmine. Ho pensato: è giunto il momento di farla finita con questa automobilina da città, vecchia, viziata, e sfigata. E’ ora di rifarmi un’immagine, di voltare pagina. Bye bye, Ypsilon. Hai fatto il tuo tempo.
Sono arrivato a casa e sono sceso in garage per iniziare a svuotare la macchina. Ho aperto la porta e… la Ypsilon non c’era. Eppure ero sicuro di averla messa in garage, cazzo. Ma dove avevo la testa? Dove l’avevo lasciata? Alla posta? Al supermercato? Al lavoro? Che seccatura, accidenti. E poi, suona il telefono. Numero sconosciuto. Sì? Rispondo. Sono i carabinieri. Mi chiedono se mi risulta che l’auto Ypsilon targata AD 726IO, di mia proprietà, si trovi attualmente in un fosso, in aperta campagna. Non so che rispondere. Penso inizialmente a uno scherzo. Poi vedo lo squarcio nella porta del garage. Mi era sfuggito perché sono entrato dall’ingresso interno, dalla casa cioè. Ma lo squarcio è veramente grande. Ci può passare comodamente una persona. Anzi, un’automobile. Quasi mi dimentico che al telefono c’è un maresciallo che sta aspettando la mia risposta.
Rispondo automaticamente, intanto mi incammino di nuovo al piano di sopra. Il maresciallo ipotizza che l’auto sia stata rubata, poi si sia schiantata contro un palo e sia finita in un fosso. Ma c’è un particolare inquietante – non è stata trovata nessuna traccia. Nessuna traccia. Oggi, all’epoca in cui si risale al DNA anche solo da una goccia di saliva o di sudore. Gli chiedo dov’è, lo saluto rispettosamente. Chiamo un taxi, lo aspetto. Arriva. Parto.
Arrivo sulla scena del crimine. La mia Ypsilon è quasi accartocciata su se stessa. Più che un furto, pare un omicidio. Anzi, no: più che un omicidio, si direbbe un suicidio. I carabinieri ridacchiano. Io no. Vedo la targa, mezza distrutta e annerita dal fango. Si leggono solo le prime due lettere e le ultime due. E il numero centrale, un 2, nell’incidente si è modificato, e sembra una D.
AD — D — IO.

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