Il Gabinetto Del Dottor Caligari
Se dovessi elencare i motivi per i quali questa pellicola non è stata di mio gradimento, allora questi sarebbero, in un certo senso, esattamente gli stessi che mi hanno portata a credere il contrario. Dato che questo commento è libero, inizierò a parlare della frattura temporale che mi divide dal film stesso a causa della distanza tra l’epoca in cui vivo e quella in cui è stato creato. Infatti la lentezza che caratterizza la sceneggiatura, la conseguente ed esagerata fiacchezza intrappolata nelle scene ripetute più volte e, infine, il genere a cui appartiene (horror), sono gli elementi che paradossalmente hanno catturato la mia attenzione. In concreto, però, iniziare questo discorso sarebbe come parlare di ciò che piace senza tuttavia esprimerne le motivazioni. Da un lato non posseggo le basi necessarie per recensire un film da un punto di vista interdisciplinare; dall’altro, immaginandomi nell’atto di addizionare nella mia mente tutte le oggettività che sono riuscita a cogliere durante la proiezione, giungerei a un risultato: il parziale rifiuto di alcune peculiarità del film che non sono riuscita a percepire e metabolizzare con fluidità e scorrevolezza. Disgraziatamente però, non essendo l’essere umano una creatura assai semplice, l’oggettività, la concretezza e la tecnicità si trasformano in attributi che nell’arte possono passare in secondo piano. Nell’individuo la maggior parte delle passioni non sono concepite sulla lineare superfice esteriore. Esse provengono invece dai quei piaceri che non possono mai essere analizzati interamente poiché, frutto del nostro subconscio, sono la sublimazione dei nostri impulsi più caotici e inspiegabili. Così è il cinema. In questo mondo in cui tutto sembra essere possibile (almeno per il regista) siamo autorizzati ad ammettere i nostri gusti senza essere costretti a dover dare delle spiegazioni. Certamente potremmo citare quali intangibilità emotive ci hanno in qualche modo toccato: uno sguardo, un dialogo o persino una parola o un movimento impercettibile potrebbero essere stati la scintilla che ha appiccato in noi l’incendio. Sebbene le parti fondamentali di un’opera cinematografica (ad esempio la sceneggiatura o il montaggio) risultino obbiettivamente essere parte del suo assunto più tecnico e forse impersonale, non è certamente possibile negare che in assenza di un’analisi puramente descrittiva questi fattori che rappresentano lo “scheletro” dell’opera siano parte di un’intimità individuale che attraverso la pubblicazione viene resa di gruppo. Ora, arrivando direttamente al succo del discorso, sono in grado di giustificarmi in maniera più esaustiva del fatto che sì, il film è stato di mio gradimento. Mi sono piaciute le tecniche di pittura del negativo precedentemente analizzate in conferenza che forse simbolicamente cambiavano colore a seconda del tipo di scene e di personaggi. Mi ha sorpreso in particolare la risata inquietante del protagonista che era stata meticolosamente riprodotta attraverso l’emissione di un suono sordo, simile al verso di un ranocchio. La porta triangolare attraverso la quale si accedeva allo studio del direttore del manicomio mi ha fatto pensare, a causa della sua forma, alla relazione tra la psicoanalisi e la magia che nel film era raccontata implicitamente (a seconda di diverse interpretazioni, infatti, il professore può essere sia il protagonista sia l’antagonista, ma nel primo caso egli rappresenterebbe lo psichiatra e nel secondo lo stregone, il mistico). Il triangolo che fa parte dei simboli onirici attribuiti alla professione dell’alchimista, rappresentando gli elementi naturali: acqua, terra e fuoco. Infine, ponendo un ultimo accenno alla simbologia del triangolo nella porta dell’ufficio del professore, si può constatare che la rappresentazione del numero “tre” richiama al concetto di “perfezione” che emerge dai due estremi: razionalità e follia. Non posso negare inoltre di essere stata in preda di un leggero brivido di terrore dopo aver visto il film, che, nonostante la lontananza dell’epoca in cui è stato girato, non ha voltato le spalle alla sua natura horror. Paradossalmente, per lo stesso motivo di discrepanza temporale, alcune scene dovevano essere quasi per forza interpretate in chiave comica. La cosa che più mi ha sorpreso tuttavia è stata la bravura interpretativa ed espressiva degli attori, che nonostante l’esagerata tragicità dei movimenti del corpo hanno davvero regalato al pubblico il piacere dell’essere spettatori. La loro recitazione era espressa con una bravura e una capacità tale che, anche in assenza di parole, la comprensione semantica del film poteva essere vincolata al movimento di un solo muscolo del viso. Questo spettacolo assolutamente minimalista mi ha fatto purtroppo riflettere sulle diversità tra gli attori di ieri e quelli di oggi per mezzo anche di paragoni ahimè ingiusti (poiché l’antico e la tradizione non sono sinonimi di “migliore” ma solo di “diverso”). Matilde Buffoni