Il giallo tra neorealismo, postmoderno e favola

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Riceviamo e volentieri pubblichiamo queste considerazioni sul “giallo” di Ciro Pinto, autore di romanzi e  racconti thriller e noir. Qui il suo sito 

È indubbio che il ‘giallo italiano’ abbia avuto un’evoluzione davvero rilevante a partire dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi e che sia stato costantemente sotto i riflettori per la portata della sua diffusione tra i lettori. Mi astengo qui dall’approfondire la discussione perenne tra critici e intellettuali sulla letteratura alta e la narrativa di genere -letteratura bassa-: è una querelle che si trascina da troppo tempo e a mio avviso inutile. Temo che risponda più a esigenze di mero corporativismo (ahimè vizio presente in ogni settore di attività del nostro Paese) che all’intento di marcare una reale differenza di espressione artistica quale potrebbe sussistere a esempio tra pittura e scrittura. Eppure quale migliore rappresentazione del crime può esserci di quelle che appaiono in tante tele del Merisi? 

Non mi sembra nemmeno il caso di affrontare nel dettaglio la questione delle contaminazioni tra letteratura mainstream e quella gialla. Uno dei quesiti più diffusi è: lo studio del contesto storico-ambientale, l’analisi psicologica dei protagonisti, i messaggi reconditi a sfondo sociale e politico elevano il giallo a letteratura ma lo ‘denaturano’? Per esempio: Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Gadda o A ciascuno il suo di Sciascia, entrambi gli autori esponenti eccellenti del neorealismo post-bellico, scrivono gialli o fanno letteratura? O, per citare un autore straniero e contemporaneo, scrive di letteratura o di narrativa gialla Cormac McCarthy nel suo Non è un paese per vecchi?

Fatta questa doverosa premessa vengo al punto, di cui al titolo di questa mia riflessione.

Il neorealismo. È un dato di fatto che in Italia oggi il giallo è un’espressione ibrida. C’è ovviamente un plot crime in tutte le tipologie -dall’hard boiled al giudiziario, al metropolitano, al poliziesco, eccetera eccetera- e in più c’è una riflessione costante sulle varie fenomenologie socio-politiche-ambientali caratterizzata da un evidente attenzione alla realtà secondo i canoni più classici del neorealismo. (Sopravvivono anche, è vero, in qualche misura e per alcuni autori, trame squisitamente incentrate sul crimine e indirizzate alla ‘deduzione’ del colpevole, secondo gli schemi più classici del giallo britannico, senza approfondire le tematiche ‘esterne’). 

Il postmoderno. Inoltre la caratterizzazione dei personaggi risponde ai canoni più diffusi dei comportamenti postmoderni, infatti i protagonisti sembrano tutti immersi nella società liquida di Baumann: perdita dei riferimenti, aleatorietà dei valori, fungibilità dei ruoli: i buoni non sono sempre buoni e i cattivi altrettanto. Di classici esempi se ne trovano a bizzeffe anche nelle serie televisive: cito a puro titolo esemplificativo Prison break e Breaking bad su tutti, per non parlare poi de La casa di Carta.

La favola. Il punto di riflessione che vorrei sottoporre è il seguente: perché la narrativa gialla, partendo nel suo impianto strutturale dalle premesse succitate, approda sempre e comunque, se si eccettua qualche caso, a un finale positivo, buonista e dunque moralmente ed eticamente salvifico? Non è forse un modo di ricalcare l’impianto narrativo della favola? Non sembri un paradosso, sappiamo bene quanta violenza, quanti crimini e quant’altro ci siano nelle favole di Andersen o dei fratelli Grimm. Si pensi soltanto al finale che Collodi aveva previsto in prima stesura per Pinocchio. Ma alla fine la formula: E tutti vissero felici e contenti riporta il sereno. E questo sembra la panacea di tutti i mali. Del resto persino il grande Dostoevskij sentì l’esigenza di tuffarsi nella bontà de l’Idiota dopo aver attraversato alcuni anni prima la tempesta del male in Delitto e castigo.

Dunque, per concludere, quanto è realistico un giallo che porti sempre alla scoperta della verità? Quando sappiamo che quasi sempre la verità nella nostra realtà quotidiana giace sommersa in un mare di ipotesi. Quanto corrisponde alla cronaca dei nostri giorni l’efficacia investigativa di un singolo investigatore o di una squadra intera? Per non parlare d’improbabili eroine della giustizia, di operatori delle forze dell’ordine scriteriati o afflitti da turbe più o meno gravi, o provvisti di strani poteri sensoriali? Sono super eroi in stile Marvel? Dov’è finito, quando si arriva al fatidico finale, il realismo profuso nella trama per descrivere crimini, omicidi efferati e quant’altro?

Provocatoriamente concluderei che la narrativa gialla va decisamente nel genere favolistico. E allora è da un po’ di tempo che mi chiedo: È giusto che sia così? Se è vero che la letteratura non debba fornire soluzioni, non debba dare lezioni, cui prodest un finale di conciliazione e salvezza? Al lettore, come unguento risanatore? All’establishment, per far dimenticare la realtà di un sistema giudiziario, investigativo e processuale che è sempre più deficitario? O forse è soltanto un modo per noi autori e per i lettori di attingere dalla fiction la forza per sopravvivere? 

Ciro Pinto

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