CUORE DI CARTA
Mi sveglio e le palpebre sono appiccicaticce e piene di grumi neri.
Resto immobile qualche istante cercando di aprirle ma faccio fatica e rinuncio.
Resto immobile qualche istante, sperando che anche il mondo faccia lo stesso. Ma l’orologio col suo ticchettio del cazzo mi ricorda che tutto si muove e sono io l’unica cosa ad essere ferma. Afferro il cuscino, lo porto tra le braccia e lo stringo con forza. Allungo una mano per cercare le coperte raggomitolate in una palla sul fondo del letto. Le trovo e le distendo alla meglio, tirandole su fino al naso perché sento freddo. Piego le gambe e porto le ginocchia contro il petto, cercando di ridurmi a una piccola palla.
Lo facevo fin da bambina, forse per il freddo o forse per sentirmi sicura, per sentirmi protetta.
Resto in questa posizione dolce e rassicurante per tanto, tantissimo tempo. Perdo il senso della realtà.
Lo riacquisto nel bagno, piegata in due sul lavandino. L’acqua scorre forte e sbatte violentemente sul fondo bianco. Gli schizzi gelidi mi graffiano il viso e tremo dal freddo. Fa così tanto freddo che mi accorgo di essere congelata e di non riuscire a muovermi. Stringo i denti perché so che prima o poi passerà. Allungo una mano violacea fino al rubinetto e lo giro bloccando quel perfido getto gelato. Mi accascio lentamente a terra e mi trascino per qualche metro cercando di raggiungere la vasca. Apro il rubinetto dell’acqua calda e quando il livello raggiunge circa metà ci scivolo dentro, con ancora mutande e reggiseno addosso. È bollente e grido, la pelle diventa rossa, brucia, ma sto meglio. Chiudo gli occhi e la bocca e mi dondolo avanti e indietro, nuovamente raggomitolata su me stessa. Aspetto solo che il dolore finisca e i sensi mi abbandonino.
È così bello quando tutto diventa nero.
?
Guardo fuori dalla finestra e tutto è perfettamente candido. Niente è fuori posto: i rami degli alberi spogli graffiano il cielo, l’erba è ghiacciata e scricchiola sotto i piedi dei bambini. Il cielo è grigio, triste ma bellissimo. Nevica. La temperatura è scesa ancora ma il paesaggio è come quelli giocattolo. Sopporta stoicamente il freddo. E io lo odio. Lo detesto, mi mette addosso una tristezza infinita. È come essere dentro una di quelle sfere che la gente compra per natale, quelle che le giri e scende la neve, dal paesaggio schematico e organizzato in maniera perfetta: gli alberi, le case, il pupazzo di neve; e con qualche euro in più anche la famiglia felice dentro al caldo e il bambino che pattina sul vialetto ghiacciato. Sono riproduzioni così perfette. Guardo fuori dalla finestra e mi sento rinchiusa in una di quelle sfere. Mi sale la nausea e lo stomaco si stringe. Mi sento soffocare.
Gli addobbi natalizi sono chiusi dentro scatoloni e mi fissano da un angolo del salotto. Io ricambio lo sguardo con superiorità. L’albero è finto e chiuso nel cellophane, lo osservo dall’alto ghignando soddisfatta, mi sento libera al confronto. Lo sguardo scivola di nuovo fuori dalla finestra. Vedo la neve, il paesaggio perfetto e ho un’altra fitta allo stomaco. Gli occhi mi bruciano e sento le lacrime salire; non sono libera. Mi avvicino all’albero, lo prendo a calci e le lacrime scendono. Apro le scatole e tiro fuori palline dorate, stelle rosse e bellissimi angeli dipinti a mano. Li butto per terra, li lancio per tutto il salotto strillando. Mi muovo veloce per casa cercando il presepe. Prendo le statuine e le lancio a terra, rido guardandole andare in mille pezzi. Prendo il piccolo Gesù dalla culla e lo lancio dalla finestra. Lo seguo con lo sguardo mentre sfreccia veloce tra i fiocchi di neve fino a cadere con un tonfo sordo in tutto quel bianco. Ne spunta fuori solo la testa, continua a fissarmi con sguardo angelico.
Odio il natale.
[…]
Federica Franceschelli è nata a Bologna nel 1989 e vive a Roma dove studia Scienze della Formazione. Ha vinto due edizioni del concorso letterario.
Questo è l’incipit di un racconto inedito.